CAPITOLO VII:
LE TENEBRE DI GENZO
 
/Boulevard of broken dreams – Greenday/
Come un tifone a stento lungamente domato quasi per miracolo, un tifone che si regolava da solo a fatica per contenersi, alla fine si scatenò.
Un tifone di nome Genzo.
Il suo punto di rottura cominciò a verificarsi con insulti a destra e a manca. Chiunque avesse la disgrazia di incontrare il figlio del direttore, finiva in qualche modo male. I fortunati si beccavano solo delle brutte offese pesanti.
Non faceva distinzioni e non importava cosa gli dicessero, lui travolgeva chiunque.
Gli unici due con cui non ebbe il privilegio di confrontarsi furono Karl e Jun.
Il primo per volontà dello stesso visto che dal litigio aveva smesso di calcolarlo, il secondo invece per volontà di Genzo.
Agli allenamenti di pugilato passava dal prendersela violentemente con Kojiro, suo personale pungiball anche nei corridoi e non solo in palestra –a cui la cosa stava ampiamente bene poiché dopo tutto si divertiva ad azzuffarsi con lui-, al far fuori il sacco di boxe.
Roberto, ma non solo lui, anche tutti gli altri, aveva capito subito che nel fuoriclasse qualcosa non andava ma conoscendolo –e soprattutto dopo aver parlato con Karl- aveva deciso che sarebbe stato meglio lasciarlo sfogarsi a modo suo. I suoi sfoghi erano autodistruttivi, poi però sapeva tirarsi su e risalire, per lo meno lo sperava.
Nel momento stesso in cui era entrato quel giorno nella palestra ed aveva visto i suoi occhi furiosi, carichi di un istinto omicida da far venire i brividi, aveva compreso quanto dura sarebbe stata anche per lui e quanto poco avrebbero potuto aiutarlo gli altri.
Si corresse.
Forse una persona dopotutto poteva farci qualcosa, con quella specie di tifone forza dieci.
Un certo fratello che pareva avere il dono di saperlo prendere in ogni situazione. Certo crescerci insieme doveva aver dato i suoi frutti…
Non interagì con lui di proposito e lo lasciò prendersela con gli attrezzi, con Kojiro e dopotutto solamente con sé stesso.
Tanta più forza estenuante ci metteva per allenarsi come non mai, tanto quel famoso processo di autodistruzione era in atto.
Dava pugni al sacco nero e pensava a Karl e al suo non volergli più parlare, ascoltare, avvicinare, rimembrava l’ultimo litigio, le ultime parole che si erano scambiati e laddove i colpi si infrangevano con violenza spietata, rivedeva la sua schiena, la sua nuca bionda mentre altezzoso si allontanava da lui.
Poteva anche girarsi, sorvolare con gli occhi color tenebra tutta la palestra e vederlo là nella zona del judo allenarsi indifferente come niente fosse. Aveva anche avuto la faccia tosta di venire lì.
La rabbia pareva infinita.
Non gli piaceva.
Ripeteva che non gli piaceva.
Ma era vero? Non ci aveva mai creduto, ora perché ne dubitava e vacillava?
Forse perché anche lui aveva dei limiti di sopportazione e quello era il suo… forse semplicemente non sapeva più dove sbattere la testa o magari, più semplicemente, poteva solo rispettare la testardaggine con cui quel pezzo di merda lo rifiutava categoricamente.
Qualunque motivo ci fosse dietro –e lui mai avrebbe davvero creduto di non piacergli veramente-, se continuava a respingerlo sempre poteva pensare solo che ci fosse un motivo più grande dei suoi sentimenti nei propri confronti.
Inamovibile.
Dopotutto era anche vero che le aveva provate tutte e se attualmente il risultato era che Karl non gli parlava definitivamente più, lui che altro poteva fare?
L’idea di arrendersi e basta gli pareva insopportabile e tanto più si vedeva con essa, tanto più forte colpiva il sacco o Kojiro o chiunque ci fosse davanti a lui.
Con un’ira trattenuta per troppo tempo nel tentativo di domare le proprie tenebre interiori.
Non sapeva più come domarsi, o sfogarsi, o darsi pace… non sapeva proprio più cosa fare.
Con Karl le aveva tentate tutte… davvero rimaneva la resa e basta?
E come si faceva ad arrendersi?
Non ne aveva la minima idea, proprio non sapeva neanche come cominciare…
Quando negli spogliatoi, a fine allenamento devastante, Kojiro gli aveva rivolto quelle semplici, brevi e concise parole, stranamente non gli avevano dato fastidio, ma lo avevano incuriosito.
Due cose gli vennero in mente mentre gli diceva che doveva mettersi il cuore in pace e aggrapparsi all’ultima forza che gli era rimasta, quella di risalire.
Cosa potesse saperne lui di quella forza e del risalire anche nella ferma convinzione di non potercela fare assolutamente, e se avesse effettivamente ragione.
C’era in lui quella forza?
Dando pugni al sacco aveva aveva scaricato tutte le energie ed i muscoli gli facevano talmente male da indolenzirlo come alla fine del suo primissimo incontro di boxe, era convinto che scaricate anche quelle, non ci fossero più forze in lui, nella maniera più assoluta, però la  voce di quel ragazzino era stata così ferma e convincente che ci aveva creduto.
Per un istante.
Poi la tigre se ne era andata ed era rimasto di nuovo solo con il peggiore elemento che avesse mai conosciuto.
Sé stesso.
Sospirò sconfitto.
Arrendersi… e come si faceva?
Che qualcuno glielo spiegasse...
 
Al pensiero di gettare la spugna con l’unica persona di cui si fosse seriamente innamorato – e per carità, non l’avrebbe mai ammesso nemmeno a sé stesso che si trattava di quello, ma dopotutto era così- andò nel panico, nella confusione più totale e si disse che tutto quello che voleva fare, dopo la furia e lo sfogo fisico, era dimenticare.
Affogare tutto, gettarlo via fino a non ricordare più niente.
Ogni fonte di dolore voleva che fosse estirpata da sé stesso, non ce la faceva più.
Non voleva saperne di ricordare le delusioni, le perdite, le sconfitte e le persone che decidevano di non parlargli più, di non vederlo, di non ascoltarlo, di non amarlo… dopo che entravano nella sua vita e tiravano fuori da lui quei sentimenti così faticosamente repressi per anni e anni di odio, poi se ne andavano. Morivano, lo lasciavano, gli voltavano le spalle.
Dopo tutto solo due persone in vita sua ci erano riuscite.
Sua madre e Karl, ma tante gli erano bastate e dopo aver soppresso in sé la questione riguardante la donna con cui tutt’oggi a distanza di tanto tempo non sapeva come considerare, gli era entrato dentro quel principe dei ghiacci e l’aveva fatto come un mitra spianato.
Ora come si toglievano i proiettili penetrati tanto in profondità?
Pensò di voler solo dimenticare, pensò che riuscendoci non avrebbe più avuto motivo per star male e per essere un perdente. Per questo si trovò a bere a più non posso approfittando del proprio nome e posizione per infrangere ogni regola vigente nell’istituto e fare tutto quello che non avrebbe potuto.
Sapendo dove trovare gli alcolici visto che quel posto non aveva segreti per lui e recuperandone uno in fretta, si mise a ciondolare per i corridoi fregandosi del pericolo di essere beccato e creare non solo scandalo ma anche scompiglio.
La sensazione di oblio fu dolce e calda, l'accolse volentieri attaccato alla bottiglia di vodka bianca. Gli ci volle poco perché così voleva lui, poi però non aveva capito come si era verificato il passaggio dal cominciare a bere al ritrovarsi attaccato al sedere ben modellato di una certa tigre poco raccomandabile. Pur spaesato si aggrappò comunque più che volentieri a lui e al suo corpo tutto sommato forte dove gli allenamenti avevano cominciato a dare i suoi frutti. Certo non si aggrappò solo a quello ma anche e a tutto quello che gli venne sotto mano… mano doppiamente libera visto che Kojiro aveva pensato bene di requisirgli la bottiglia permettendogli così di palpeggiarlo meglio ed esplorare il resto dei suoi nuovi muscoli.
- Sei migliorato molto da quella sera… - Biascicò attaccando la bocca al suo collo sotto sforzo e cominciando confusamente a succhiare come se bevesse ancora alcool.
Fu poi strano.
Proprio mentre cominciava ad andarci giù pesante e a divertirsi -per lo meno vagamente gli pareva di riuscirci- con le parti intime ed i glutei sodi di Kojiro fra le dita, una voce familiare lo riscosse come svegliandolo da un torpore offuscato. Non capì cosa disse ma un campanellino gli risuonò nella mente annebbiata e annegata.
Si chiese se fosse a lui congeniale, quella voce, poi sentendo un leggero velo di ironia nel tono lo riconobbe associandola al fratello e come se fosse l’unica cosa in grado di sopportare –o magari proprio colui che aveva cercato veramente dall’inizio di quell’autodistruzione- senza ragionarci nemmeno, mollò immediatamente il ragazzo e si aggrappò a Jun. Gli cinse il collo con le braccia ma non riuscì a reggersi sulle gambe poiché lo piantarono in asso definitivamente. Andò a peso morto sul fratello minore che non aspettandoselo, non cadde per un pelo.
Nei bruschi spostamenti immediatamente successivi, mise a fuoco un unico oggetto che gli sembrò aleggiasse davanti al suo naso proprio per lui, così si riappropriò volentieri della sua amica bottiglia. Non capiva dov'era ma ritrovandocisi con il suo hobby di quella sera, gli andò più che bene. Pure l'Inferno sarebbe stato ospitale con la vodka in mano!
Quando fu interrotto e cercò di fare fuoco su chi avesse osato togliergli il suo giocattolo, trovò suo fratello e si ricordo di essersi aggrappato a lui come con un salvagente. Lo riprese istintivamente per il polso e se lo tirò giù avvolgendolo con braccia e gambe più stretto che mai, nascondendo il viso contro il suo petto.
Il suo cuore era leggermente alterato ed i battiti gli indicavano che era ancora vivo e che stava bene, era con lui e lo abbracciava a sua volta.
Cominciò a calmarsi ed i pensieri, sebbene ancora confusi e la testa gli esplodesse con un giramento assurdo, sembrarono lentamente riordinarsi per quanto possibile.
In realtà per non sprofondare oltre si era aggrappato all’unica cosa accettabile e sana della sua vita, Jun.
Si focalizzò totalmente su di lui a cui era abbarbicato e cominciò a parlare a ruota libera senza nemmeno rendersene conto.
Non aveva la minima idea di che cosa la sua lingua stesse tirando fuori, ma ne era contento.
Cioè vagamente.
Non poteva dirlo con certezza ma parlare con suo fratello l’aveva sempre calmato e sebbene non sapesse perché ora si stesse scusando con lui e che altro di personale gli stesse dicendo, le sue mani lo carezzavano e gli asciugavano premurose il sudore dal viso, quindi andava tutto bene.
Lui, i suoi battiti ora calmi e regolari che gli facevano come da ninna nanna ed infine la sua voce, di nuovo, mentre chiudeva gli occhi e si abbandonava a quello che gli diceva per rispondere ai suoi vaneggiamenti:
- Non devi scusarti, fra fratelli non serve. Lo so che ne sei innamorato e che non è facile accettare di non essere ricambiati, so anche che prima di arrendersi le si prova tutte. Mi piaci per questo, perché non sai darti per vinto mai. So che ci sarai sempre e la mamma è più contenta quando vede che vieni ogni volta da me a chiedere aiuto, piuttosto che quando l’accontenti nei suoi desideri del passato. Stai tranquillo, dormi e vedrai che supererai anche questo. Ti aiuterò io. -
Sebbene non capì al cento per cento tutto e della gran parte percepì solo il senso, vi si aggrappò con tutta la sua volontà residua. Si tenne stretto a quell’ultimo ‘ti aiuterò io’ e ci credette.
Credette, nel sonno che lo avvolse dolce come la braccia di suo fratello –che ricordavano tanto quelle della sua mamma- che lui potesse davvero aiutarlo, che l’indomani sarebbe riuscito a fare qualcosa per lui.
Ci credette e si addormentò ascoltando il suo cuore che batteva ancora rassicurandolo.
Quando l’oscurità lo avvolse, un sonno quasi di piombo lo portò giù, sempre più giù, negli abissi della sua coscienza dove aveva seppellito con cura e brutalità ricordi che mai e poi mai avrebbe più voluto riavere.
Con gli atteggiamenti spavaldi di quel presente si era convinto di aver buttato via ogni cosa perché quelle non erano cose da ricordare, anche se Jun insisteva ad ogni anniversario della mamma per farlo.
Al dialogo –se tale si poteva chiamare- con suo fratello, se ne sostituì un altro del passato.
Un dialogo che all'epoca l’aveva sconvolto, sempre con lui.
Genzo… cos’è la morte? “
Perché me lo chiedi? “
Perché hai detto che sono malato di cuore e non guarirò mai, potrei morire anche io come la mamma…”
Non volevo arrabbiarmi e dire tutte quelle cose…”
Non importa, non dovevo farti sempre le stesse domande…”
Ma la mamma che è morta è anche tua e nessuno ti ha spiegato cosa è successo… “
E’ volata in cielo. Se il mio cuore dovesse farmi tanto male come quel giorno potrei volare anche io come lei? “
Spero di no. “
Non vuoi che voli? “
No. “
Ma allora è brutto? “
Non so com’è per chi muore ma so com’è per chi rimane. “
Ed è così brutto? “
Ti è piaciuto quando la mamma è morta ed è volata in cielo? “
No, ma non ricordo bene… ho avuto tanto male al petto… è così che si sta se gli altri muoiono? “
Sì, solo che ti ricordi tutto e non lo dimentichi più. Vedi, mentre quello per te era un attacco di cuore che ti avrebbe potuto portare via in cielo, chi sta male per chi muore prova lo stesso dolore, solo che sta sulla terra e vive per sempre con quel male. “
Oh… ma è brutto… “
Sì, lo è… “
Ma io non ricordo bene di quando è morta la mamma, ho dormito tanto… “
Hai avuto un attacco di cuore e sei anche piccolo… se queste cose brutte succedono quando sei abbastanza grande, ricorderai tutto per sempre ed ogni volta il dolore sarà come il tuo attacco di cuore. Però dovrai vivere anche se non vuoi perché il petto ti fa così male che preferiresti addormentarti per non sentire più niente. “
Stai così male anche ora? “
Sì… “
E come lo sopporti? “
Ormai mi sto abituando. “
Ci si abitua? “
Dopo un po’ sì, ma non è come non provare più male. È solo che fai finta di niente, però il dolore c’è. “
E non c’è niente che ti fa stare bene? “
Tu mi fai stare bene… anche se prima ho gridato e mi sono arrabbiato con te e la mamma… in realtà ce l’avevo con la vita che me l'ha portata via e ti ha fatto ammalare. “
E’ la vita che fa avvenire queste cose? “
Non so chi sia, ma penso che sia la vita… “
Genzo? “
Mmm? “
Se io ti faccio stare bene mentre stai male, allora cercherò di non morire mai! “
Tutti moriamo… “
Allora cercherò di vivere tantissimissimo! E farò il bravo, così la vita non mi farà volare via tanto presto… sarò buono e non mi lamenterò mai… ma tu ogni tanto sorridi, ok? “
Mpf… sei proprio un bambino! “
Visto? Hai già sorriso! Ti aiuterò io! “
Grazie… “
Rivivendo nel sonno quel vecchio dialogo con un Jun bambino, nel presente il viso di Genzo si bagnò di calde lacrime che però non si rese mai conto di aver versato. Dopo il pianto per quel piccolo che crescendo non aveva mai cambiato idea ed aveva continuato a dirgli sempre quella frase magica –ti aiuterò io- e a fare il ‘bravo e non lamentarsi mai’, un sorriso sereno di sollievo aleggiò sul suo viso cupo e sciupato permettendogli di dormire finalmente bene dopo molto tempo.
Una cosa che aveva dimenticato e non avrebbe mai dovuto.
Quando si perdevano le persone care, bisognava aggrapparsi alle altre che rimanevano, allora si ritrovavano le forze per risalire.