8. NON DIMENTICARMI MAI


"Ricordami."
/Special Needs - Placebo/


Presi gli incarichi, i letter bee uscirono alla spicciolata dalla segreteria, diretti all’uscita per cominciare i loro compiti giornalieri.
Gauche vedendo che Jiggy rimaneva stranamente indietro, lo aspettò senza capire cosa avesse.
- Che succede? - Chiese con aria interrogativa.
Jiggy non fece espressioni particolari, sembrava aspettasse qualcosa.
- Stai poco bene? Vuoi passare in infermeria? - Continuò senza capire.
A quel punto il corridoio si svuotò sufficientemente e negli occhi azzurri inespressivi di Jiggy apparve una luce maliziosa.
- In effetti ho bisogno di una controllata… ma non dal dottore… - Gauche, ingenuamente, allargò le braccia senza capire.
- Devi sempre essere così criptico? Di cosa hai bisogno? È il cavallo di ferro? - E Jiggy, con un sorrisino, lo prese per il braccio, lo tirò bruscamente in uno degli angoli ciechi dell’Alveare e spingendolo contro il muro lo coprì col proprio corpo, fermandolo con le mani.
- Ho bisogno di una controllata da te! - E con questo lo baciò veloce e deciso.
Gauche in un istante si ritrovò bloccato in un angolo dal suo corpo ben sviluppato, la sua bocca contro la propria, la lingua ad invaderlo, il suo sapore di dentifricio. Gauche tornò a respirare poco dopo con un sorriso e lentamente scivolò con le mani intorno al suo collo e poi sulla nuca, fra i suoi capelli rossicci spettinati.
Il calore li avvolse con dolcezza, mentre le loro labbra si fondevano in un bacio che li avrebbe accompagnati per tutto il viaggio.
- Stai attento. - Mormorò Jiggy protettivo, sulle sue labbra.
Gauche sorrise.
- Anche tu. - Dopo di che gli sistemò il colletto della giacchetta, gli infilò il cappello e controllò che i suoi occhiali da motociclista fossero a posto. Infine gli diede un altro dolce bacio sulle labbra e con un sorriso andarono ognuno per la propria strada.

Le cose andavano bene ultimamente.
Jiggy aveva trovato un appartamento, aveva ricevuto il primo stipendio e se l’era preso. Poi aveva iniziato a pagare la rata del cavallo di ferro, si era fatto la scorta sufficiente di cibo per il mese ed infine il resto l’aveva messo via, al sicuro, per poter realizzare il suo progetto di costruire una cattedrale nella propria città natia.
Gauche lo vedeva felice mentre si sistemava e realizzava passo dopo passo i suoi obiettivi. Non l’avrebbe mai fermato o contrastato, sebbene gli mancasse averlo in casa, dormire con lui.
Avevano sempre dormito abbracciati da quando si erano messi insieme, Jiggy non aveva insistito per andare oltre coccole e abbracci, come se sentisse che non era ancora pronto.
Come se non volesse rubargli la sua innocenza.
In cambio Gauche non lo riempiva di domande apprensive su come stava e come era andata la consegna, pur stando via per dei giorni.
Funzionavano bene, Jiggy era sempre più aperto e rilassato, con lui, e Gauche si sentiva più sicuro di sé, le idee chiare, sereno e tranquillo.
Lentamente cominciarono a sentirsi come se niente al mondo avrebbe mai potuto rovinarli in alcun modo. Proprio niente.


Jiggy stava portando a termine delle consegne, quando arrivò quel giorno.
Gauche aveva finito presto e stava guardando la vallata dalla sua postazione preferita, dove si vedeva il sole artificiale risplendere sulla capitale.
Quando balenò ripetutamente, quando si spense e si riaccese, qualcosa accadde.
Gauche si sentì spegnere insieme al sole, quel giorno.
Per alcuni secondi, ripetuti successivamente, il buio calò su tutta la notte. La notte si fece oscura e si portò via molte cose, da molte persone.
La sensazione di spegnersi, la sensazione di non esistere, la sensazione di staccare la spina, sospendersi, dimenticarsi di esserci.
Quella sensazione. Gauche dimenticò anche quella, quella notte.
Furono istanti bravissimi che fecero rabbrividire tutti, ma colpirono davvero solo alcuni.
Quando il sole smise di balenare, Gauche tornò presente e si ritrovò sulla collina, davanti alla vallata che si vedeva di nuovo.
Per lui fu come non essersene mai andato, quasi che nulla fosse successo, alcun brivido, alcuna sensazione mostruosa, gelida, di strappo interiore. Nulla. Gauche si girò stranito, smarrito, con la sensazione che fosse successo qualcosa di importante, una sensazione incapace di afferrare. Senza capire, senza realizzare di cosa si trattava. Che a lui qualcosa mancava, che gli era stato strappato qualcosa.
Aria corse a chiamarlo dicendo che la madre stava partorendo ma si sentiva male, lui la guardò senza capire, ma lei lo prese per il braccio e lo trascinò a casa agitata.
Quando entrarono, c’era la levatrice mortificata che piangeva.
- Ho fatto il possibile, sono riuscita a salvare la bambina, ma purtroppo tua madre… - Si fece forza e lo disse. - Lei è morta. - Aria si raggelò coprendosi la bocca con le mani, guardò subito Gauche cercando di capire come aiutarlo, come avrebbe reagito. Forse avrebbe odiato per sempre la sua sorellina che gli aveva tolto sua madre, in qualche modo.
Ma lui rimase inebetito, immobile, indifferente per un secondo, si avvicinò al letto e alla donna che stringeva fra le braccia una bambina che piangeva. Infine prese la bambina, come se il letto fosse vuoto.
La strinse, l’alzò davanti al viso per guardarla bene e sorridendo le parlò dolcemente:
- Silvet! La mia piccola tenera Silvet! La mia unica famiglia! -
Dapprincipio le due donne non capirono, si guardarono perplesse e guardarono Gauche che dava le spalle al letto e cullava la sorellina che finalmente si calmava fra le sue braccia.
- Suede, tua madre… - Tentarono di fargli capire meglio la situazione, ma lui come se loro nemmeno parlassero, andò fuori e cominciò a mostrarle il mondo, come se niente altro esistesse. Come se niente mai fosse esistito prima di allora.
Aria iniziò a piangere, mentre la levatrice semplicemente coprì il volto della donna morta, capendo che quel balenio, che quelle tenebre di qualche minuto prima, si erano portate via molto più che la vita di una donna che aveva messo al mondo una bambina.
Si erano evidentemente portate via anche un pezzo di cuore di Gauche, il quale, dopo quel giorno, non avrebbe più ricordato sua madre.
Mai più.


Quando il sole balenò, Jiggy era ben lontano dalla capitale ed anche da Yusari. Era in una zona di Yodaka.
Si accorse dei flash del sole artificiale, ma non ci fece molto caso.
Dopo un giorno rientrò a Yusari e appena messo piede nell’Alveare, Aria si precipitò da lui, all’ingresso, avendo sentito il motore del suo cavallo di ferro. Jiggy ed Aria non avevano mai avuto grossi contatti, in competizione per Gauche. O meglio, Aria non si era mai resa conto che l’astio di Jiggy derivava da quello, secondo lei a Jiggy semplicemente non piaceva nessuno tranne che Gauche, ma solo in qualità d’amico.
Perciò quando le si fiondò addosso prendendolo per il colletto della giacca strattonandolo con le lacrime agli occhi, gli venne un colpo.
Si sentì immediatamente morire, sentì uno schianto dentro di sé, come se il suo cuore gli cadesse finendo a terra.
Con la stretta dentro di sé, spalancò gli occhi e riuscì a malapena a dire:
- Cosa è successo a Suede? - Perché solo per lui, solo per quello lei poteva ridursi in quello stato e correre dalla persona con cui aveva avuto meno contatti.
- Suede è… Suede è… - Ma non riuscendo a dire nulla di più perché i singhiozzi le strozzavano la voce, fu Largo a spiegare per lei, molto più calmo e distaccato.
- Suede ha dimenticato la madre. - Fu come una sentenza. Jiggy lo guardò convinto che lo prendesse in giro, essendo Largo Lloyd poteva essere. Ma Aria piangeva troppo, tanto che dovette tenerla per le braccia per non farla scivolare a terra.
- Cosa? - Chiese aggrottando la fronte, mostrando per la prima volta un’espressione, un’inclinazione, un sentimento.
- C’è stato il balenio del sole artificiale, ieri, non so se l’hai visto e dove eri… - Jiggy non mosse un muscolo e Largo continuò. - Lui era sulla collina, è stato colpito in pieno dall’oscurità. Quando è finita, è andato da sua madre che aveva partorito la sorellina. Lei era morta, non ce l’ha fatta. Ma lui l’ha completamente ignorata, come se non ci fosse mai stata. Tutte le volte che le diciamo di lei, lui dice che non aveva una madre, se proviamo a farlo ragionare non c’è verso. È come quando un gaichu ti colpisce e ti ruba un pezzo di cuore… e tu dimentichi qualcosa… lui ha dimenticato sua madre! - Jiggy, una mano sulla spalla di Aria col viso affondato sul suo petto a piangere, l’altra stretta a pugno a cercare di gestire, di controllare quell’enorme frana che l’aveva appena investito.
Le ginocchia gli si irrigidirono, i piedi si fecero pesanti e per un momento il sangue si gelò.
“E se ha dimenticato anche me?”
- Vai a vederlo, il dottore lo sta riempiendo di visite… ma non sembra trovare risposte e soprattutto… pare che non ci sia nulla da fare… -
Largo non poteva essere più delicato di così. Si avvicinò, prese Aria sotto braccio e la tolse da Jiggy il quale, una volta libero, si voltò verso le scale. Le guardò con un sacro terrore ben evidente nel viso, non riusciva a parlare, a respirare, a pensare.
La paura lo aveva gelato completamente. In vita sua ne aveva passate tante, tanti brutti colpi duri da digerire, durissime prove da superare, ma non aveva mai avuto la paura che aveva in quel momento.
“La prima cosa bella, la prima cosa davvero bella e che funziona, che mi aiuta, mi fa stare bene, mi fa andare avanti ad ogni costo e tornare indietro… non può essere finita così… come è possibile?”
Largo gli mise una mano sulla schiena con gentilezza e questo lo riportò alla realtà, dandogli la forza di muoversi e salire quelle maledette scale.
Quando raggiunse la porta dell’infermeria, bussò e attese la voce che gli permettesse di entrare.
Quando lo udì, aprì e si fece forza.
Quel passo fu la cosa più difficile mai fatta.
Dentro c’era Gauche con una neonata in braccio che dormiva succhiandosi il pugnetto, lui la guardava con una dolcezza infinita e sorrideva.
Se non ci fosse stato un retroscena così raggelante, Jiggy si sarebbe sciolto in quella che era la visione più meravigliosa del mondo.
Ma in quel momento non riuscì ad ammirarli. Scivolò coi piedi dentro, il cuore batteva impazzito nel petto, la testa esplodeva, le gambe così maledettamente pesanti.
Gauche poi si girò a guardare chi era entrato, lo vide e sorrise con la stessa dolcezza riservava alla sorella. Si alzò e andò da lui felice, leggero, entusiasta.
- Ehi ciao! Guarda chi è arrivata? Ti presento Silvet! Non è bellissima? Ha i capelli color del grano! - Jiggy continuava a non respirare, ma si rese conto che il cuore rallentò, smise di cercare di esplodere. Sgranò gli occhi e lo guardò con attenzione nel viso, gli occhi spenti anche se felici, del suo solito colore ambrato così belli. Gli mancava qualcosa, in quegli occhi. Gli mancava un pezzetto di cuore. Però non il suo.
- Ti piace? - Chiese Gauche con dolcezza. Jiggy allora la guardò come se si ricordasse della bambina solo in quel momento, annuì spaesato, poi tornò a guardare lui preoccupato, gli occhi pieni di lacrime, traduzione di un istante in cui si era sentito morire.
- Sì… è bellissima… ma tu come stai? - Gauche sorrise ancora e si sporse verso di lui baciandogli le labbra. Questo gesto lo riportò alla vita in un istante, restituendogli l’anima persa per un momento infinitamente lungo.
- Bene, sono tutti preoccupati, ma io sto bene! - E con questo, Jiggy lo strinse forte a sé, lui e Silvet, affondando una mano fra i suoi capelli bianchi e spettinati, nascondendogli il volto contro il proprio collo. Chiuse gli occhi e liberò un’espressione mista fra il sollievo ed il dolore.
- Non dimenticarmi mai, non dimenticarmi mai, ti prego… non dimenticarmi… - E mentre lo diceva, non trattenne più le lacrime.
Gauche, sorpreso e sconvolto da quella reazione, spostò Silvet su un braccio per poterlo circondare con l’altro.
- Ehi… ehi… - mormorò dolcemente. - Non potrei mai dimenticarti… come potrei? - Ma Jiggy a quello scattò col terrore di cui non riusciva ancora a scrollarsi, lo guardò come se dicesse un’eresia indicibile:
- Come potresti? Hai dimenticato tua madre! - Disse agitato per la prima volta in vita sua. Gauche era sempre più sconvolto di vederlo così, infatti sospirando indietreggiò e mise giù Silvet sulla carrozzina, poi tornò a lui sempre calmo e paziente, nello sguardo qualcosa di diverso, qualcosa che non sarebbe più tornato, come una nota inconsapevolmente nostalgica.
- Tutti mi parlano di questo fatto, ma io non so cosa dire, non ricordo nulla, per me non c’è stato nulla prima di Silvet. -
- Ma noi ricordi, di essere un Bee ricordi, Aria la ricordi! - Rispose concitato, incapace di capire come si potesse dimenticare una persona, per di più così importante.
Gauche spaventato da quella sua reazione così shoccante, si strinse nelle spalle.
- Sì, ricordo tutti… ma per me non c’è mai stata una donna a crescermi fino ad oggi. Io non… non ricordo… non c’era, non c’era e basta… - Jiggy lo prese violentemente per le spalle, sconvolto da questo, incapace di farsene una ragione per la paura ancora così grande di poter finire come lei.
- Ma non stai male? Non ti senti che manca qualcosa? Non senti il dolore, l’angoscia? Come pensi di essere vissuto fino ad ora? Come è arrivata Silvet? Dal nulla? - Domande una più lecita dell’altra, Jiggy le sputava fuori gridando, scuotendolo, spaventandolo, ma lui non lo respinse e non chiamò nessuno, lo lasciò fare, poi vedendolo terrorizzato, con le lacrime che scendevano, lo abbracciò di slancio e lo strinse forte cercando disperatamente un modo per rassicurarlo e calmarlo.
- Non sto male, non sto male, credimi… non ti dimenticherò mai! Mi ricordo di te, di Aria, dell’Alveare, del mio lavoro, di quel che ho fatto. Ma per me Silvet è comparsa in casa mia ieri, non so come, non focalizzo il dettaglio sul modo in cui è arrivata da me. So come nascono i bambini, ma non c’è un ricordo di Silvet prima di ieri, mia madre non c’è, non esiste, non so nulla… ma sto bene, non mi manca nulla, non ho dolore, non ho tristezza, non ho nulla… sto bene, devi credermi. Se è successo qualcosa, io non ne sono consapevole, sto bene. - Lo ripeté cercando di calmarlo, sentendolo scuotersi come non l’aveva mai visto.
Jiggy si calmò alla sua stretta ed alle sue parole, fino a che gli rimase solo una grande tristezza, un’infinita tristezza, mentre la paura rimaneva dietro l’angolo. Dove sarebbe sempre rimasta fino alla fine dei suoi giorni, convinto che prima o poi sarebbe successo ancora, incapace di capire come poteva essere.
 - Ma hai affrontato un gaichu? - Gauche si strinse nelle spalle separandosi da lui.
- No, io stavo guardando la vallata, il sole artificiale… e poi ha balenato. Si è spento e riacceso un paio di volte e poi… Aria è venuta a chiamarmi in lacrime. Dopo di che c’era Silvet. - Spiegò. Per lui era tutto normale, era tutto a posto. Non realizzava, non lo sentiva come una cosa grave, non la viveva male.
Jiggy non sapeva più come sentirsi, confuso e sconvolto si asciugò le lacrime, poi gli prese il viso fra le mani fissandolo da vicino, intensamente, quasi arrabbiato.
- Giurami che ti ricordi di noi, di tutto. - Gauche sorrise e gli carezzò il viso.
- Di tutto. Di come ti ho fatto venire in casa con me perché vivevi all’aperto e non avevi soldi nemmeno per mangiare, del cavallo di ferro che ti ho aiutato a trovare, del primo giro insieme, di queste cicatrici… - A quel punto a Jiggy gli venne in mente la promessa che si erano fatti.
Che sarebbero stati insieme finché avrebbero avuto cuore.
Rabbrividì e premette disperatamente le labbra sulle sue, rimanendo così, come ad imprimersi nella sua mente, risucchiare quell’istante, cristallizzarlo, cercare qualcosa di impossibile da dimenticare.
Gauche, sconvolto da quelle sue reazioni, capì quanto grave doveva essere stato quello che gli era capitato anche se non riusciva a percepirlo da sé, non riusciva proprio a realizzarlo.
Lui davvero non stava male, lui veramente non provava niente.
Appunto, niente.
Non verso una madre che per lui non era mai esistita.

Jiggy accompagnò Gauche e Silvet a casa, dove vide che ancora non c’era alcun allestimento per la piccola. Ma, al contrario, c’era ancora il letto della madre. Lei era stata portata via.
Jiggy rimase fermo a guardare la stanza della donna, mentre Gauche posava la piccola sul letto libero come se non fosse mai stato di nessuno, come se l’avesse preso proprio per lei.
- Ci costruirò delle spondine, altrimenti rischia di cadere. - Disse Gauche uscendo per poi tornare con delle assi in legno e degli attrezzi.
Il magone salì di nuovo in Jiggy. Gli dispiaceva per la madre di Gauche, era una donna così dolce, l’aveva accolto senza problemi, l’aveva aiutato il primo mese. Ed ora se ne era andata in quel modo, velocemente.
Non se ne capacitava, pur sapendo che nel parto poteva essere dolorosamente normale.
- Anche mio padre è morto. - Disse lugubre, mentre si avvicinava trasalendo ad una trave caduta troppo rumorosamente.
- Come? - chiese Gauche non sapendo le dinamiche.
Jiggy lo guardò impressionato, l’ombra della paura sempre in agguato.
“Ecco, adesso mi guarderà e mi chiederà chi sono…”
Prese l’asse e decise di aiutarlo, testando il periodo per capire se poteva essere una condizione anomala ma momentanea.
Assecondarlo forse poteva essere l’unico sistema per non farlo stare davvero male.
“Se lui non prova nulla ma vede che siamo tutti angosciati, si angoscerà per colpa nostra… e non potendo fare nulla per risolvere la situazione, starà male e basta. Ora come ora, per aiutarlo, dobbiamo fingere che vada tutto bene e alleggerirgli un peso che non deve portare, perché non può fare proprio niente.”
Jiggy tornò con fatica alla sua logica pratica e sempre utile nei momenti critici, così sforzandosi di usare un tono piatto, spiegò del padre.
- Ti avevo detto che era morto contro un gaichu. -
Gauche annuì cominciando a fissare le travi verticali allo scheletro del letto. Jiggy gliele teneva, lui batteva coi chiodi. Silvet, stranamente, non piangeva nonostante il rumore del martello.
- Sì, è vero. - Si ricordò Gauche. Jiggy lo osservava ad ogni mossa, con cura, cercando di capire se ci fosse qualche cambiamento, se stesse peggiorando o migliorando.
- Ti ho parlato di mia sorella, vero? - Chiese cercando di sembrare distratto. Gauche senza fermarsi dal lavorare, annuì.
- Sì, certo. È rimasta con tua madre e suo padre ed è molto forte. Non avete lo stesso padre, ma la stessa madre. Vuoi far costruire una cattedrale per dare lavoro alla tua gente e poi creare un rifugio sicuro per tutti quelli come voi che sono senza lavoro e senza casa. - Gauche sapeva perché lui gli aveva fatto quella domanda, l’aveva messo alla prova così rispose con molta precisione. Jiggy sospirò di sollievo cercando di non darlo a vedere, ma lui sorrise e gli sfiorò la fronte con il martello fingendo di giocare.
- Visto che va tutto bene? - Jiggy voleva ripetere che non andava tutto bene se stava facendo una culla sul letto della madre morta solo il giorno prima, specie se lo faceva perché non si ricordava di lei. Però si mangiò la risposta ed alzò le spalle.
- Non si sa mai, mi sembra che ti servano dei test ogni tanto. Magari ti dimentichi anche di come ci si lava i denti, vai a sapere tu! - Cercò di essere acido come suo solito per farlo ridere, ci riuscì ed il suo sorriso lo rassicurò. Era bello. Un po’ naturalmente malinconico, ma sempre bello.
Splendido, anzi.
- Cosa vuoi sapere? - Chiese Gauche fissando altre travi, capendo che così lo tranquillizzava.
“Lo fa per me. Mi ha visto sconvolto e sta cercando di tranquillizzarmi.”
Pensandolo, scosse il capo e facendo un’aria incerta, gli chiese la prima cosa che gli venne in mente.
- Il nostro primo bacio? -
Gauche smise di battere e lo guardò con quella dolcezza che lo contraddistingueva, anche se innegabilmente malinconica.
- Fuori dal mondo, appena scappato dalla morte. Dopo che mi hai fatto venire un colpo ed hai fatto l’eroe! E senza nemmeno chiedermi il permesso! - Scherzò Gauche. Jiggy fece un piccolo sorriso, dopo di questo smise di riempirlo di domande, cercando faticosamente di domare quel suo stato angoscioso che continuava ad attanagliarlo, nel terrore di vederlo dimenticarsi anche di lui.