BREAK ME DOWN


Non pensava davvero potesse fare così male rivedere la sua vecchia squadra, i suoi vecchi tifosi, i suoi vecchi colori, e doverci giocare contro.
Non che non ci avesse mai pensato, perché sarebbe stato da stupidi non aver messo in conto quella probabilità che alla fin fine era molto più che una probabilità, era una certezza. Sapeva che avrebbe finito per giocare contro la sua vecchia squadra, sapeva che avrebbe dovuto dare il meglio di sé e sapeva che non era nemmeno corretto chiedere al mister di lasciarlo in panchina; uno: perché il mister non avrebbe mai acconsentito, due: perché non sarebbe stato giusto, semplicemente.
Riccardo sospirò entrando in casa, era un piccolo appartamento in centro che usava durante la settimana, quando aveva bisogno di un ambiente intimo e raccolto lontano dai fasti della sua villa appena fuori Milano. Era un ambiente che in un certo senso gli ricordava le sue origini e in questo momento ne aveva bisogno.
Non accese la luce, conosceva a memoria l’appartamento e stanco com’era la luce gli avrebbe ferito gli occhi e basta; si diresse in cucina e prese una birra dal frigo per poi sedersi sul divano e lasciare andare la testa sullo schienale.
Si era allenato fino a non sentire più le gambe e far urlare ogni muscolo del corpo, ma quando era in condizioni simili l’unica cosa che poteva dargli sollievo era questa.
Sfiancarsi fino a non sentire più i pensieri che implacabili lo attanagliavano per tutto il resto del tempo.
Aveva preso una decisione, fatto una scelta, e ora doveva andare fino in fondo, doveva sventrare il dolore che sentiva e rivoltarlo, doveva accettarlo e andare avanti e solo affrontandolo di petto poteva davvero rendersi conto di quello che aveva fatto e provare ad archiviare il dolore.
Sorrise amaro provando ad immaginare come sarebbe stato l’indomani, provando ad immaginare la sua vecchia squadra che entrava in campo e provando ad immaginare come sarebbe stato non indossare la sua vecchia maglia viola, il suo numero dieci, ma la sua maglia nuova. Bevve un sorso di birra lasciando che il liquido gelido gli invadesse la gola, era sempre stato bravo a farsi del male, Cristian gli ripeteva sempre che il suo problema era che pensava troppo. Inutile replicare che invece quello di Cristian era che pensava troppo poco. Il ragazzino non cambiava idea e forse aveva ragione dopotutto, quelli erano pensieri che uccidevano lentamente e non aiutavano nessuno ma aveva passato dieci fottuti anni in quella squadra, dieci anni in cui aveva sputato sangue e si era dannato per farla salire in classifica, per ottenere almeno la Uefa, per non farsi lasciare indietro dalle grandi.
Perché lui amava quella città, quei tifosi, quella squadra, i suoi compagni, e non voleva lasciare niente di tutto questo per ottenere trofei che in una delle maggiori sarebbero stati molto più alla portata. Lui voleva ottenere lo scudetto, la Champions e tutto il resto, con quella squadra lì, con quei tifosi lì e con quei compagni lì.
Né più né meno.
E aveva lottato come un leone per anni per ottenere tutto ciò, forte della consapevolezza che se davvero ci avesse creduto, se tutti i suoi compagni di squadra ci avessero creduto, allora sarebbe stato possibile. Ma ora che era sulla soglia della trentina un’altra consapevolezza si affacciava alla sua mente.
Non bastava che fossero loro a crederci, dovevano crederci i dirigenti, doveva crederci il presidente.
E così ogni anno che passava la squadra si ritrovava sempre più in difficoltà, annaspava subendo le conseguenze delle scelte sbagliate delle alte sfere e non riusciva mai davvero a dare il massimo, nonostante lui fosse diventato l’idolo dei tifosi e della città, nonostante tutte le squadre maggiori fossero interessate a lui e con loro avrebbe potuto vincere tutto quello che aveva a lungo sognato.
Nonostante lui fosse diventato un giocatore di livello, un attaccante puro, lui il gol non lo creava dal nulla, lui lo annusava nell’aria e semplicemente era sempre lì quando una palla finiva in area, era sempre nel dannato posto giusto al momento giusto e riusciva sempre, immancabilmente, a tirare fuori tiri assurdi e al limite del surreale per metterla dentro.
Aveva fiuto.
Semplicemente aveva fiuto per il gol.
Ma tutta la sua bravura da sola non bastava, non bastava lui per far andare avanti la squadra, non quando era praticamente da solo in mezzo a dilettanti, non quando la società vendeva quelli bravi per cifre esorbitanti lasciando lui solo, ad annaspare in campo, lasciando lui come bandiera di una squadra che amava con tutto se stesso ma che si sentiva incapace di seguire ancora.
Aveva trent’anni e fra poco avrebbe dovuto ritirarsi e non aveva ancora vinto nulla, assolutamente nulla, e per quanto facesse male alla fine aveva accettato il trasferimento in una delle maggiori.
I tifosi si erano spaccati in due, chi lo capiva e chi lo chiamava traditore, i compagni di squadra, quasi tutti ragazzini, l’avevano guardato spersi, come se andasse via un fratello maggiore o un padre, l’allenatore non gli aveva più parlato.
E cosa ancora peggiore lui stesso si era sentito un traditore.
Sapeva che era la scelta più giusta, quanto avrebbe potuto giocare ancora? Un anno? Due? E lui voleva fare qualcosa, qualcosa di grande, voleva vincere. Sapeva che era nel suo pieno diritto ma gli si era strappato un pezzo di sé ugualmente quando era partito.
Quando aveva visto il sole morire su quella città che a lungo aveva sentito come sua e che avrebbe considerato sempre tale, non aveva potuto fare a meno di sentirsi davvero morire un po‘ e non aveva avuto tutti i torti.
Qualcosa in quel preciso momento era morta dentro di lui.
Era morta l’inarrestabile certezza che lui era diverso, che lui non avrebbe abbandonato il suo sogno per egoismo, non avrebbe abbandonato la sua città e sarebbe sempre rimasto fedele a se stesso.
Che inutile infantilismo.
Nessuno era mai sempre fedele a se stesso e nessuno era scevro dall’egoismo che attanaglia tutti prima o poi, anche uno come lui.
In quel momento, mentre la macchina abbandonava a tutta velocità la città che gli era entrata nell’anima per restarvi tutta la vita, aveva sentito distintamente il rumore del suo cuore andare in pezzi e tutte le certezze che aveva avuto prima vacillare. Tutto quello che si era ripetuto quando seguiva le trattative, tutto quello che aveva continuato  dirsi mentre firmava il contratto, tutte le parole che gli ripeteva il suo agente (tu non sei egoista, Cristo Ricky hai dato tutto per quella squadra, tutto!Sai quanto avresti potuto essere grande in qualunque altra squadra? E hai rinunciato a tutto solo per loro, come fai a dire di essere egoista se per la prima volta nella tua vita segui i tuoi desideri invece di pensare sempre agli altri?) e in cui lui aveva creduto, in quel istante erano solo polvere che si alzava disperdendosi nel aria aranciata del tramonto.
Lui stesso si sentiva polvere e l’unica certezza che era rimasta era che forse aveva ragione il suo agente, forse non era stato egoismo ma li aveva in ogni caso traditi e niente avrebbe mai potuto cambiare questa certezza.
Si passò una mano nei capelli biondi, sciogliendo la coda con cui li tratteneva e lasciando che scivolassero sulle spalle, era riuscito a tenere lontano quei pensieri per tutti quei mesi; si era impegnato e aveva vinto, aveva stabilito un feeling quasi perfetto coi suoi compagni e soprattutto con Cristian, l’altra punta di diamante della squadra, un ragazzino con un talento spropositato con cui si era trovato immediatamente in sintonia perfetta,  le prime vittorie erano state esaltanti, stupende, perché sputare sangue e vedere che serviva a qualcosa, perché sapere che se avesse sbagliato l’entrata su un pallone c’era Cristian che l’avrebbe preso, era fantastico, e avere alle spalle una squadra fortissima non aveva davvero prezzo.
Però quello era il momento della malinconia e dei ricordi, li aveva arginati così a lungo che adesso semplicemente fuoriuscivano con una naturalezza tale da lasciarlo stordito.
Dall’altra parte aveva avuto amici, prima che compagni di squadra, lì aveva compagni e basta, dall’altra parte i tifosi lo amavano con tutto loro stessi, lì semplicemente lo apprezzavano tiepidamente.
Il calore che sentiva giocando a Firenze davvero non avrebbe mai potuto essere sostituito.
Quando sentì armeggiare con la porta di casa non si mosse, poteva esserci soltanto una persona che si interessava così a lui da tentare di scassinare la porta invece che suonare, per paura che non gli aprisse.
-Cristo Ricki mi hai fatto prendere un colpo!Qui da solo al buio… sembravi un rapinatore!-
Infatti.
Riccardo roteò gli occhi e poi li fissò in quelli del nuovo arrivato, incredulo.
-Un rapinatore che se ne sta seduto sul divano con una bottiglia di birra in mano?-
Osservò Cristian posare distrattamente il giubbotto sulla poltrona e poi sedersi pesantemente sul divano accanto a lui, sospirando.
Continuò ad osservarlo mentre si passava una mano nei capelli castani, scostandosi la frangia dagli occhi e fissando una ciocca ribelle dietro l’orecchio, sono cresciuti, osservò distrattamente Riccardo provando l’irrazionale desiderio di passarci una mano in mezzo, per vedere se erano davvero così morbidi come sembravano con tutte quelle onde che gli coprivano sempre il volto disordinatamente, facendolo assomigliare un po’ a uno zingaro.
Sospirò, non era pensabile avere quei pensieri per un ragazzino appena maggiorenne, anche se era un giocatore dannatamente bravo e quando erano in campo sembrava gli leggesse nel pensiero.
Nemmeno guardava dov’era quando doveva passargli la palla, semplicemente tirava essendo certo che lui fosse esattamente lì, dove la palla sarebbe caduta. E non sbagliava mai.
In campo sembravano coetanei in quanto a bravura e affinità, ma al di fuori Cristian era semplicemente un ragazzino che a volte faceva cazzate enormi e che andava strigliato quasi ogni settimana perché si allenasse con costanza e si impegnasse sul serio.
Le guance appena rotonde conservavano ancora la forma infantile dell’adolescenza e quegli occhi grandi e scuri sembravano davvero quelli di un bambino, soprattutto quando lo guardavano supplici dopo aver combinato l’ennesimo disastro.
Era un bambino, per cui avrebbe messo in congelatore gli ormoni e non avrebbe fatto assolutamente nulla di quello che il corpo urlava di voler fare.
-Come cazzo hai fatto a entrare Cris?- chiese allungando una mano per afferrare il telecomando e accendere la tv. Non voleva davvero sapere come diavolo avesse fatto visto che non aveva le chiavi, sospettava che la risposta non gli sarebbe piaciuta, però poteva benissimo immaginare che ci facesse lì, seduto sul suo divano a guardarlo con quella faccetta seria seria.
Gli venne su un moto di fastidio perché non voleva intristirlo, non voleva essere consolato e gli dava quasi fastidio che in pochi mesi Cristian fosse riuscito a capirlo così bene.
A capire che si sentiva dannatamente devastato all’idea di affrontare la sua vecchia squadra l’indomani, a sapere che aveva un disperato bisogno di qualcuno vicino (di lui, solo e disperatamente di lui) per non distruggersi più del necessario, a interpretare il suo silenzio dopo gli allenamenti e il suo saluto frettoloso e correre in suo aiuto, così naturalmente quasi come non avesse fatto altro in quei mesi.
E in fondo era così.
Era stato Cristian a salutarlo entusiasta al suo arrivo, a presentarlo ai compagni e attaccarsi a lui come una cozza impedendogli di sentire troppa nostalgia o di notare troppe differenze, era troppo occupato a scrollarselo di dosso , senza peraltro avere il minimo desiderio di farlo, per pensare troppo. In fondo il ragazzino davvero non aveva fatto altro che preoccuparsi per lui e aiutarlo in tutti i modi possibili, nonostante fosse appena un bambino a suo confronto.
Cristian rise brevemente, uno scintillio birichino negli occhi, e diede conferma ai suoi sospetti, dichiarando:
- Non vuoi davvero saperlo, credimi-
Riccardo sospirò scuotendo la testa, lasciando che le ciocche bionde che sfioravano il collo si muovessero con lui, dando l’impressione che scintillassero sotto la luce tiepida della lampada accanto al divano che aveva appena acceso.
Si rassegnò a chiederlo alla fine.
-Che ci fai qui Cris?-
La risposta arrivò istantanea e lo lasciò basito:
-Voglio coccolarti in previsione di domani, che altro?-
Voltò la testa di scatto a guardarlo, gli occhi azzurri spalancati sul volto spigoloso, non aveva davvero sentito quello che aveva sentito vero?
-Che cosa vuoi fare tu?!-
Non ebbe il tempo di concludere il pensiero che Cristian gli si buttò addosso, abbracciandolo stretto e posando la testa sul suo petto, strofinandola come un gattino in cerca di carezze, si era accoccolato vicino a lui lasciando aderire ogni singolo pezzo del corpo al suo e costringendolo a deglutire ripetutamente per impedire al suo corpo di avere reazioni indesiderate.
Autocontrollo, doveva solo avere autocontrollo.
Non si azzardò a mandarlo via per il semplice fatto che avrebbe dovuto toccarlo e non sapeva davvero come sarebbe andata a finire. O meglio: lo sapeva fin troppo bene per quello stava rigido come un baccalà con le mani che artigliavano la stoffa del divano per non toccarlo.
-Dai Cri… levati…- borbottò, senza ottenere il minimo risultato se non uno strofinio maggiore della testa.
-Vorrei avere la tua forza sai- sussurrò Cris dal nascondiglio privilegiato che gli offriva il torace di Riccardo.
-Eh?- esclamò quest’ultimo, di tutte le cose che si aspettava dicesse l’amico, questa davvero era la più improbabile. In ogni caso si rassegnò a rilassare il corpo e prese ad accarezzargli i capelli, affondando finalmente la mano in quelle ciocche scure che erano davvero morbide come immaginava.
-Ma si… insomma stai a pezzi ed è normale, voglio dire, io starei pure peggio al tuo posto, posso solo immaginare come dev’essere orribile affrontare una squadra che per te ha significato così tanto, però non lo dai a vedere, ti sei allenato come sempre e ti sei comportato come al solito, nessuno sospetterebbe che in realtà stai di merda e non ti sei lasciato sfuggire nessuna risposta compromettente ai giornalisti, per non lasciare che la tua vecchia squadra possa avere riguardi-
Bloccò la mano osservando incredulo la testa scura ancora posata su di lui, come diavolo aveva fatto a capire tutto quel dannato ragazzino? Lui non era una persona trasparente come Cristian, tutt’altro, era sempre freddo e formale, nessuno capiva mai come prenderlo e tutti avevano pensato che non gli importasse poi molto lasciare la sua vecchia squadra, non aveva dato modo di pensare altrimenti col suo atteggiamento distaccato. Eppure Cristian gli stava sbattendo in faccia tutto quello che provava e gli stava dicendo che non lo aveva ingannato nemmeno un istante con il suo atteggiamento e non solo, che aveva pure capito perché si comportava in quel modo.
Si lasciò scappare un mezzo sorriso che Cristian non vide, lasciando che le mani sfiorassero la schiena, lentamente, era sottile e aggraziata, il ragazzino era ben lontano da avere il suo fisico possente, ma le gambe erano muscolose e scattanti, era agile in una maniera impressionante e quando correva davvero, nessuno poteva raggiungerlo.
Scosse le spalle.
-Non serve a nessuno che io sbatta in faccia a tutti come sto, cosa potrebbero fare?Ho deciso io di andarmene e io mi prendo le conseguenze, non è giusto che nessun altro si preoccupi per me-
A quelle parole Cristian alzò la testa e lo guardò corrucciato, il viso a pochissima distanza dal suo e il desiderio irrazionale di annullarla.
-Cazzo dici?E’ normale che tutti si preoccupino per te, credi che non farlo vedere a nessuno impedisca agli altri di preoccuparsi?-
Riccardo sorrise, era così tenero quando si infervorava così, convinto che tutto il mondo fosse provvisto del buon cuore che possedeva lui e incapace di credere che semplicemente spesso gli altri se ne fregavano di come stavi davvero. Non che ne facesse a nessuno una colpa, semplicemente era normale, tutti avevano i loro problemi, perché mai avrebbero dovuto accollarsi anche i suoi?
-E come mai io vedo solo te qui?- replicò non riuscendo ad impedirsi di sistemargli una ciocca dietro l’orecchio, saggiando finalmente la consistenza serica della sua pelle e sentendolo rabbrividire.
Continuò.
-Non ne faccio una colpa a nessuno Cris, è normale… ognuno va avanti per sé e si preoccupa per sé è così che va il mondo… ho imparato a non fare affidamento su nessuno, voglio solo farti capire che è per questo che non sbatto in faccia agli altri come sto. E’ inutile.-
Vide l’espressione di Cristian incupirsi e le sue mani contrarsi per allontanarlo e alzarsi in piedi di scatto, il viso rosso per la rabbia e la voce alterata.
-Questa è una stronzata grande quanto una casa e tu sei un coglione se la pensi così!Tutti erano preoccupati per te e mi hanno chiesto come stessi e si sono tranquillizzati solo quando ho detto loro che stasera sarei stato con te, non sono venuti soltanto per lasciarci tranquilli!-
Le sue parole rimbombavano nella testa creando echi infiniti, non era stupito dalla reazione forte che aveva avuto Cristian, era un ragazzo spontaneo e istintivo, si aspettava reagisse in quel modo, ma le parole che aveva detto… quelle si che lo stupivano! Perché presupponevano che i suoi compagni non solo si preoccupavano per lui, ma che forse avevano accettato ancor prima che lo facesse lui quello che stava nascendo con Cristian.
Qualunque cosa fosse.
-E anche se tu dici di non aver bisogno di nessuno io ci sarò ugualmente, sarò li quando vinceremo e poi mi dirai se non è meglio così!- continuò urlando quasi, lasciandolo sempre più sconvolto, la bocca sottile leggermente aperta. Quello davvero non se l’aspettava e sentiva qualcosa contrarsi dentro perché in fondo a quello che aveva detto ci aveva sempre creduto, e la vita gli aveva sempre dimostrato di avere ragione e ora arrivava quel ragazzino che lo sconvolgeva a dirgli le cose che aveva avuto disperatamente bisogno di sentire da una vita intera. Si alzò in piedi e gli si avvicinò, per la prima volta nella serata, anzi, per la prima volta da che era arrivato in quella squadra, si lasciò scappare un sorriso, non un sorriso amaro o divertito o di circostanza, un sorriso vero, di quelli che partono da dentro per poi illuminarti tutto il viso e renderti quasi bello anche se non lo eri.
-Va bene- disse solo, per poi passargli le braccia attorno alla vita sottile e attirarlo a sé, in un abbraccio che sapeva più di tenerezza che di sesso, lasciando che Cristian nascondesse la testa nell’incavo del suo collo per stringersi a lui e calmarsi.



Faceva davvero male come pensava alla fine.
Aveva giocato l’intera partita come fosse una partita qualunque, dando il massimo perché sapeva che la sua vecchia si meritava il meglio di lui, certamente non avrebbero voluto vederlo giocare male, sarebbe stato solo peggio.
Però non erano ancora riusciti a segnare e non perché la squadra o lui e Cristian non si impegnassero abbastanza, non erano riusciti a segnare perché la sua vecchia squadra lottava disperatamente, come un leone, per portare a casa almeno un pareggio, lottava per dimostrargli che ce la facevano anche senza di lui, lottava per puro orgoglio e lui di questo ne era fiero, non era mai stato fiero di qualcosa come di questa partita.
Così quando Cristian partì con la palla al piede, dribblando con la sua solita classe tutti i difensori, lo seguì dall’altro lato del campo, lo vide passare per smarcarsi e poi riprendere la palla e ripassarla di prima avanzando implacabile, conosceva quella classe, quella fluidità, quando il ragazzino giocava così era impossibile fermarlo.
Erano quasi davanti alla porta e lui aveva due difensori addosso, il resto della squadra era quasi interamente su Cristian e sugli altri compagni che avevano seguito l’azione, si passavano la palla cercando un varco che era dannatamente difficile da trovare, tutta la sua vecchia squadra era praticamente passata in difesa e cercavano di intercettare la palla ad ogni passaggio, fallendo.
I suoi compagni erano troppo veloci, i passaggi erano schegge precise che arrivavano esattamente dove dovevano.
E poi la vide.
La palla gol.
Arrivò a Cristian e la posizione era ottima, non avrebbe potuto tirare da lì ma sapeva a chi passarla e sapeva che Riccardo era smarcato, tutta la squadra avversaria impegnata a seguire i passaggi velocissimi degli altri.
Il ragazzino non si voltò nemmeno, come al solito, gli fece l’assist del gol con una precisione impressionante certo che la palla sarebbe caduta esattamente ai suoi piedi e così fece.
Metterla in rete fu un secondo.
Proprio sul fischio finale.
Riccardo aveva agito così d’istinto che nemmeno si era voltato a guardare se fosse entrata davvero, ne era certo, per cui non si voltò, non voleva vedere, non voleva davvero vedere la disfatta della sua vecchia città.
Fu devastante esattamente quanto aveva preventivato e non sentì nemmeno i suoi compagni abbracciarlo per esultare, lui non lo fece.
Rimase immobile a subire i complimenti e le urla e le braccia che finivano da tutte le parti senza che niente riuscisse davvero a toccarlo, niente avrebbe potuto arginare il nodo che era salito in gola strozzandogliela.
Il respiro non usciva e si sentiva soffocare e non per l’intreccio di corpi che ormai erano su di lui, ma per il concretizzarsi di tutta la sofferenza che si era impedito di provare in tutti quei mesi, (non ci riesco, non ci riesco, non riesco a respirare) e desiderò solamente che tutti svanissero, andassero via e lo lasciassero in pace.
Dovevano lasciarlo in pace, come facevano a non capire che lui tutto quello non lo voleva? Gioire? Ma gioire di cosa? E Cristian dov’era? Lo voleva in un modo irrazionale, ne aveva un bisogno quasi fisico.
Si coprì il viso con le mani, nessuno doveva vedere le lacrime che scendevano, la testimonianza della sua debolezza, basta, il gol l’aveva fatto, i festeggiamenti anche, perché lo abbracciavano ancora?
(Dove sei? Dove cazzo sei? Vieni qui, vieni qui dannazione.)
Poi lo sentì, e non con le orecchie, percepì chiaramente la presenza di Cristian come la percepiva in campo quando stava per passargli la
palla e lui si faceva trovare esattamente nel punto giusto.
Sentì le sue mani allontanare i compagni e le sue braccia stringerlo e non ce la fece più, non ce la fece più perché in quel momento stava soffocando e sentiva che avrebbe potuto anche non riuscire più a respirare liberamente per sempre, non ce la fece più perché la guancia di Cristian si appoggiava alla sua e strofinava leggermente portandosi via le lacrime e sussurrandogli all’orecchio:
-Hai visto che ci sono? Sono qui…Piangi…sono qui-
La partita ormai finita e tutto lo stadio che guardava quell’intreccio di corpi e all’improvviso, mentre finalmente si decideva a stringere forte Cristian e nascondere la testa sul suo collo liberando i singhiozzi che lo soffocavano, capì.
Non stavano esultando i suoi compagni.
Lo stavano abbracciando per stargli vicino e coprire lui e Cristian dal resto del mondo, coprivano le sue lacrime e la sua debolezza, coprivano le sue mani che stringevano forte la maglietta di Cristian fin quasi a romperla, coprivano le labbra di Cristian che gli baciavano via le lacrime e coprivano il suo viso devastato, gli occhi chiusi e le labbra aperte per aspirare più aria. La pelle che bruciava sotto le sue labbra e il cuore che non smetteva di battere perché il ragazzino aveva avuto ragione, aveva avuto ragione fin dall’inizio e se si teneva in piedi adesso era solo perché lo stava abbracciando, averlo lì in quel momento significava non perdersi del tutto e resistere all’onda devastante che quella partita aveva provocato.
-Ci sei…ci sei…- continuava a sussurrare all’orecchio del ragazzino, mentre le sue braccia si rifiutavano di lasciarlo perché quel corpo e quegli occhi che lo guardavano teneri, erano davvero conforto e salvezza.
-Non potrei essere da nessun’altra parte-
Rispose passandogli un braccio attorno alla vita per cominciare ad avviarsi in spogliatoio, mentre i loro compagni si avviavano con loro fra le urla esultanti dei tifosi.

Non poteva davvero dire di stare bene adesso, però la disperazione era scivolata via lasciando solo un incredibile tristezza, ma era quella tristezza dolce, quella che ti scivolava addosso per ricordarti che un cuore ce l’avevi e se batteva ancora era anche grazie a quel impalpabile nostalgia che ti prendeva in alcuni momenti per strapparti via un pezzo di te. Ma era un pezzo che non rivoleva indietro, dopotutto, quel pezzo sarebbe appartenuto per sempre alla sua vecchia squadra e andava bene così. Era riuscito a esorcizzare il dolore e guardando Cristian che si affaccendava in cucina per preparare dei cocktail che Dio solo sapeva cosa contenevano, non si sentì più così perso.
Aveva lui in fondo.
Era un ragazzino si, ma aveva dimostrato di essere di gran lunga più maturo e in gamba di lui e ora come ora se ne fotteva se aveva appena diciannove anni.
Era il suo ragazzino.
Per cui quando Cristian si avvicinò porgendogli il bicchiere con uno strano liquido rosso dentro, lo guardò. Lo guardò e basta ma quello sguardo conteneva la decisione che aveva preso e sapeva che Cristian l’avrebbe capito.
Perché provava la stessa cosa, non aveva certo bisogno che glielo dicesse, in fondo si capivano sempre senza parlare ed era sorprendente come questo fosse successo nello spazio di pochi mesi, ma quando ti capitava di incontrare persone così, così incredibilmente perfette, non perfette in quanto persone, ma perfette rapportate a te, allora non potevi certo giocare a nascondino col destino.
Perché rischiavi di perdere tutto e perdere Cristian non era pensabile.
-Devo ancora capire dove hai imparato a fare questi intrugli micidiali-
Borbottò Riccardo afferrando il bicchiere e bevendo un sorso. Storse la bocca sentendo la gola andare a fuoco, era fortissimo ma innegabilmente buono.
Cristian rise sedendosi accanto a lui e allungando i piedi sul tavolino:
-Mia sorella è una barista e si diverte a creare cocktail strani… io sono la sua cavia, se piacciono a me li propone ai clienti-
Rispose bevendo un sorso e schioccando la lingua compiaciuto.
-Io imparo e poi replico… questo poi è davvero buono-
Continuò a parlare stringendo il bicchiere, Riccardo sorrise, poteva essere maturo quanto voleva ma in certe cose restava davvero un ragazzino. Parlava quasi a ripetizione per scongiurare l’imbarazzo che sicuramente provava, non era stupido e quella strana tensione nell’aria l’aveva colta quanto lui, sapeva cosa stava per accadere e il nervosismo che sentiva poteva quasi respirarlo.
-Ti ci devo portare un giorno sai, è un bellissimo locale tutto nei toni del blu e il titolare ha creato tipo un laghetto sotto il pavimento che è trasparente e così entri e…- Riccardo non lo lasciò finire, si avvicinò a lui sfilandogli il bicchiere dalle mani e accarezzandogli il viso delicatamente, il pollice scivolò sullo zigomo e sulle guancie rotonde per arenarsi sulle labbra leggermente aperte, respirava a fatica Cristian e Riccardo sapeva che era per l’aspettativa e perché quel momento lo desiderava intensamente quanto lui.
-Non sai quanto ti ho desiderato…- mormorò il ragazzino, parlando finalmente di quello che sentiva premergli dentro da tutta la serata.
-Anche quando eri alla Fiorentina sai, eri il mio idolo, eri il mio obbiettivo e non passava partita che io non registrassi per poi guardare al rallentatore tutte le tue azioni, eri diventato quasi un ossessione-
Riccardo spalancò leggermente gli occhi, non si aspettava una confessione del genere da parte del ragazzino, non aveva sospettato minimamente che lo seguisse da così tanto tempo.
-Poi quando abbiamo saputo che eri in trattative per venire da noi non hai idea di quanto ero felice e di quanto mi hanno preso per il culo gli altri…- continuò a parlare ma questa volta Riccardo non voleva interromperlo, beveva tutto quello che il ragazzino diceva mentre con le dita continuava ad accarezzargli leggermente il viso.
-Ed è quando sei arrivato che ho capito che mi piacevi anche come persona, che non potevo fare a meno di seguirti sempre e ammirarti per il coraggio che avevi avuto ma ancora di più perché ci stavi male, li ho capito che eri davvero la persona che immaginavo tu fossi ed è li che non sono più riuscito a tornare indietro- mormorò abbassando leggermente il viso, vergognoso. Riccardo non riuscì a trattenere un sorriso tenero, era davvero dolce quando lasciava da parte la sua aria da monello impenitente e si apriva in questo modo, con un coraggio che lui decisamente non possedeva. In fondo aveva lasciato che fosse Cristian a parlare per primo, scoprendosi totalmente.
Ma quando aprì la bocca nuovamente decise che era anche ora di chiudergliela, e non aspettò certo che formasse la frase per farlo. Lasciò scivolare la mano dietro la nuca e lo attirò a sé, sfiorando le sue labbra delicatamente, con una tenerezza che si trasformò in bisogno non appena sentì la bocca dell’altro aprirsi immediatamente e rispondere con un immediatezza e una passione tale da lasciarlo stordito. E tutti i suoi propositi di andare piano, per gradi, andarono a farsi benedire quando Cristian alzò una gamba per scavalcarlo e sedersi a cavalcioni sopra di lui, continuando a baciarlo e a lasciar andare le mani dappertutto, in una carezza continua sempre più frenetica, sempre più urgente.
Non era pensabile riuscire a mettere assieme un pensiero coerente, non era nemmeno pensabile fermarsi a questo punto, così l’unica cosa che Riccardo riuscì a fare fu arrendersi del tutto e lasciar scivolare le mani sotto la maglia, a sentire il torace compatto e liscio di Cristian, a percepire con le mani il movimento del petto sempre più frenetico nella ricerca continua di aria.
Le mani di Cristian erano ovunque, sulle sue spalle mentre gli slacciava la camicia frenetico e gli accarezzava il petto, sul suo ventre mentre correva sempre più in basso, a slacciare i jeans e insinuarsi al loro interno, stringendolo.
Quello era davvero delirare perché mai con nessuno aveva provato quella confusione abissale, quella sensazione di stare perdendosi senza aver nessuna voglia di ritrovarsi e la certezza che gli avrebbe lasciato fare tutto.
Lo stava uccidendo col movimento continuo di quella dannata mano e si affrettò a percorrere il suo corpo velocemente, la pelle bollente e il sudore che cominciava a imperlarla, scivolò sotto la tuta per esporlo totalmente a lui e quando le loro erezioni entrarono in contatto il singhiozzo che si lasciarono sfuggire si alzò chiaro nell’aria, eccitandoli ulteriormente.
Cristian prese a muoversi verso di lui convulsamente, il bacino strofinava sul suo, le spinte sempre più profonde e veloci, le mani che si strusciavano coordinando i movimenti perfettamente.
Erano sempre stati magnifici a sincronizzarsi e lo stavano dimostrando una volta di più.
Riccardo alzò lo sguardo e incontrare il viso stravolto di Cristian non lo aiutò nella ricerca frenetica di ritardare l’orgasmo, perché era un qualcosa di fantastico quando si perdeva in quel modo, le labbra socchiuse alla ricerca frenetica di aria, il viso devastato dal piacere e gli occhi chiusi. Lo attirò a sé in un bacio aperto e umido e sentire la sua lingua che teneva il ritmo della mano, sentire i suoi gemiti sempre più alti direttamente sulla sua bocca, fu troppo. Venne inarcando la schiena, spingendo il bacino contro il suo e continuò il movimento della mano sempre più velocemente, finché non sentì anche Cristian liberarsi e accasciarsi su di lui.
Lo abbracciò cercando di normalizzare il respiro, ormai sincronizzato con quello del ragazzino, e gli baciò la testa nascosta sul suo collo, le labbra che sfregavano la pelle in una carezza continua e la pace che finalmente pervadeva entrambi.
-Sapevo che sarebbe finita così… però sei così giovane… Cris sei sicuro?Meriti…-
Lo interruppe alzando la testa di scatto, non aveva la minima intenzione di scendere dalle sue gambe, nemmeno per ripulire il disastro che avevano creato.
-Se mi dici che merito di più ti pesto-
Ribatté Cristian guardandolo truce e alzando la mano per minacciarlo seriamente di mettere in pratica il suo proposito.
Riccardo sorrise afferrandogli il polso e posandogli un bacio umido nella pelle tenera, appena sotto la mano stretta a pugno, costringendolo ad aprirla per intrecciare le dita.
-Io non lo dico ma questo non mi impedisce di pensarlo-
Rispose Riccardo, ma sorrideva ironico e rise quando Cristian lo schiaffeggiò leggermente con l’altra mano.
-Non prendermi in giro stronzo… mi hai fatto aspettare mesi!E non  pensare minimamente di farmi aspettare altrettanto per scopare decentemente sai!- esclamò Cristian, schiaffeggiandolo più forte quando la risata di Riccardo salì di tono.
-Decentemente?Per te questo non era abbastanza decente?-
Replicò afferrando anche l’altra mano per poi costringerla a posarsi sul suo petto, l’espressione di Cristian mutò istantaneamente, tornando a farsi persa e gli occhi socchiusi lasciavano appena intravedere lo sguardo liquido e sensuale che accompagnava la mano, mentre questa si faceva sempre più audace scivolando sempre più giù, a risvegliarlo nuovamente.
-Fammi vedere quanto sai essere indecente allora-
Sussurrò Riccardo prima di lasciarsi andare sotto i tocchi di Cristian e ricominciare.