*Ecco un altro capitolo, in questo assistiamo all'incontro fra Don e Jason, il killer. Si gioca tutto sul capire se Jason sa chi è Don davvero o no, perciò Don deve tenere il gioco e condurlo a suo vantaggio fino alla fine, senza dimenticare che la priorità è trovare Tyler. Nel frattempo si comincia a scoprire più cose su Jason. Buona lettura. Baci Akane*

21. UN INCONTRO DEL DESTINO



"Fingiamo di non esserci mai incontrati Fingiamo che stiamo per conto nostro Viviamo vite diverse Finché le nostre coperture non saltano"
/Racing rats - Editors/


Il locale era in pieno centro, proprio la zona dei ripetitori individuati dal tecnico durante gli sms.
Era uno di quei ristoranti fast food dove si poteva mangiare sia qualcosa di veloce e iper calorico e anti colesterolo, sia un piatto decente da consumare con calma al tavolino.
Il locale era mediamente grande e da un lato aveva un negozio di articoli sportivi, dall’altro un salone di bellezza.
Don arrivò con un po’ di anticipo rispetto all’orario dell’appuntamento e si mise nel tavolino prescelto, con lui alla spicciolata, non tutti insieme, si posizionarono anche gli altri agenti sotto copertura: chi in solitudine, chi in coppia.
Don aveva un piccolissimo auricolare color carne nell’orecchio per sentire la voce di Colby e all’occorrenza quella degli altri agenti. Poi una microcamera nel terzo bottone della camicia, i primi due erano slacciati, infine un microfono per far sentire la sua voce nell’orologio che fungeva da trasmittente per rimanere in contatto con gli altri, Colby in particolare.
Ebbero modo di dare un’occhiata a tutto il locale, non era molto pieno ma nemmeno vuoto. Fare qualcosa di folle lì era fuori discussione, Don era sicuro avesse scelto un posto del genere per tutelare sé stesso, indeciso su quello che sarebbe successo da quell’incontro. Né uno né l’altro avrebbero mai rischiato in un posto con tanta gente.
“Forse non sa cosa aspettarsi, è diffidente dopo dieci anni di questa vita. Può essere che Colby non abbia torto a pensare che non sa che sono io a capo dell’indagine, ma lo trovo assurdo che abbia abbordato proprio me. Forse non è sicuro che fossi io, forse c’era, ma era nascosto perché è paranoico e non ha potuto assistere bene alla scena. Dopotutto ci ha lanciato una sfida, lui vuole giocare con noi.”
Don stava elucubrando sui possibili scenari, quando dalla porta entrò un uomo dalla stazza considerevole anche se non grasso. Era ben massiccio. Lentigginoso, capelli corti, rossi tendendo all’arancio, ricci. Alla luce Don vide il colore degli occhi e vide meglio i suoi tratti comuni. Il viso tondo non gli forniva una forma interessante, il naso era schiacciato, gli occhi di un classico verde.
La cosa che saltava subito erano i suoi modi rozzi ed impacciati. Urtò una sedia e per poco fece cadere il vassoio di una cameriera, appena alzò le mani per scusarsi imbarazzato, si videro le due dita che mancavano. A quel punto tutti si misero sull’attenti.
- Soggetto in scena, si comincia. - Disse Colby alle trasmittenti di tutti. Colby non poteva essere nel locale perché era stato con Don la sera prima, non sapeva se l’aveva visto o no e per non rischiare non poteva stare lì. Però era in una delle posizioni strategiche esterne, non nei pressi dell’ingresso in modo da non farsi vedere. Era verso una delle vetrate, non troppo vicino, ma nemmeno troppo lontano. Liz e Nikki invece erano dentro per essere pronte in caso di necessità.
Don sentendo confusione si voltò e lo vide, così sorridendo si alzò dando segno di averlo riconosciuto. Jason lo vide e si illuminò di un sorriso impacciato.
Alla luce del giorno era tutto diverso, probabilmente.
Don pensò che se di notte Jason era apparso strano, lì di giorno faceva anche tenerezza.
“Non sembra per niente un killer psicopatico!”
Pensò. Probabilmente era così che li attirava. Faceva delle sceneggiate che li obbligava a presentarsi al secondo appuntamento, dove invece si dimostrava una personcina quieta e anche tenera. Abbassavano la guardia e lo incontravano di nuovo, magari in un posto più appartato e tranquillo. E lì le cose si facevano serie.
Don pensò che non aveva tutto quel tempo da poter stare alle sue tappe, doveva saltare il terzo incontro e passare direttamente a Tyler.
Jason e Don si incontrarono, si strinsero la mano e Jason si rivelò davvero impacciato in un ambiente non protetto e sicuro quale poteva essere un locale gay notturno.
Don invece rimase sicuro di sé e del tutto naturale.
“Sembra nato per questo!” Si disse Colby stupito poiché non l’aveva mai visto sotto copertura. “E poi dicono che sono io la spia con la faccia da poker!”
- Aspetti da tanto? - Chiese Jason mite. Don si sedette indicando di accomodarsi e con un sorriso che avrebbe conquistato chiunque, che lo mostrava ben diverso dal bel tenebroso che allontanava ogni essere vivente, disse:
- Un paio di minuti. Ho staccato da lavoro e sono venuto subito… - Jason così approfittò del fatto che ne aveva parlato per cominciare subito la conoscenza:
- E cosa fai? - Don, consapevole che così facendo glielo avrebbe chiesto, rispose qualcosa di fittizio. L’aveva introdotto per poterglielo richiedere a sua volta.
Con Colby avevano pensato cosa dire, non poteva sparare un posto da impiegato perché Don non era tipo da impiegato. Era tipo da lavoro attivo, perciò avevano stabilito che per essere credibili avrebbe dovuto dire:
- Ho una palestra, sono istruttore di difesa personale. -
Ogni lavoro plausibile per uno come Don aveva a che fare con la lotta contro il crimine, oppure con un qualche sport professionista. Chiaramente non poteva dire di essere un giocatore di professione, tanto meno un poliziotto. Perciò avevano optato per quel compromesso. Da un lato poteva impaurire Jason, dall’altro intrigarlo. Aveva il senso della caccia, aveva stuzzicato l’FBI a trovarlo lasciandogli il furgone, mettendosi più in prima linea di prima. Sapere che era uno che si difendeva poteva attirare Jason.
Infatti i suoi occhi si illuminarono subito e lo guardarono pieno di interesse.
- Davvero? - Don sorrise ed annuì.
- Sì… non sembro un istruttore? - Jason così lo guardò nel complesso.
- Certo… - Lo sguardo di chi apprezzava quel che vedeva. - In realtà sì… - Poi si ricordò di quello che gli aveva detto. - È solo che con mezzo polmone in meno pensavo dovessi fare un lavoro più sedentario… come è successo? - Jason stava divagando, Don doveva riprendere il controllo della conversazione. Così rispose sbrigativo immaginando che fosse normale non aver voglia di parlare di quello.
- Sono stato aggredito, pugnalato. Rapina. - Disse criptico abbassando lo sguardo sul menù che consultava da un po’. Jason si rese conto che non gli piaceva parlarne.
- Scusa, non volevo essere indiscreto… stanotte mi hai fatto vedere la cicatrice, pensavo che fosse facile… - Don ebbe un’intuizione delle sue e rialzò gli occhi con aria di sfida.
- Per te è facile? - Disse indicando la sua mano. Jason sussultò e la sollevò un po’.
- Beh, no… - Don alzò le spalle tornando al menù, fingendo di disinteressarsene ed anzi di non volerne parlare proprio. Psicologia inversa, uno dei trucchi interrogatori più famosi. Fai finta di non voler sapere una cosa e te la diranno. Don fece anche finta di essere seccato e chiudendo il menù brontolò qualcosa sul fatto che non gli piaceva quello che c’era, così Jason si mise in allarme e si posizionò in punta sulla sedia, con la mano ben stesa sul tavolo fra di loro. Mignolo e anulare destro mancavano, ormai non si vedeva quasi nulla della cicatrice. Era di molto tempo fa, forse venti anni, pensò Don fissandola torvo.
- Vedi, per me è diventata un’ossessione… questa menomazione mi ha fatto sempre sentire inferiore e vedere te che avevi qualcosa in comune con me mi ha… beh, fatto sentire simile. Come se potessimo parlarne, finalmente. Aprirci a vicenda. Qualcosa che non ho mai potuto fare. - Don rimase zitto a fissarlo, sempre in chiusura. Le braccia conserte. L’aveva studiata bene.
Jason scrutava il suo viso illeggibile, affascinante. Gli occhi duri.
- È stata mia madre. - Disse poi sussurrando piano. Don si aggrottò e rialzò finalmente gli occhi per capire se mentiva. Uno sguardo e capì che era dolorosamente vero. Gli occhi limpidi di chi non aveva altro dietro quelle iridi verdi. Solo convincere Don a non chiudersi e a rimanere lì. Voleva parlare con lui, approfondire, conoscerlo.
- Mi prendi in giro? - Chiese polemico, seguendo il proprio personaggio. Che poi era quello che avrebbe detto in quelle condizioni.
Jason scosse la testa con calma e sorrise malinconico.
- Incredibile, vero? Figlio di due genitori uno l’opposto dell’altro. - Con questo Don cominciò a comporre il quadro, ma Jason vedendo che lo stava ‘ritrovando’ continuò con la storia, mentre la cameriera arrivò prendendo le ordinazioni di un pranzo leggero e nutriente. - Mio padre mi ha trasmesso la sua passione per gli uomini. - Disse deridendo la cosa da solo. Don capì che stava dicendo la verità perché ne stava parlando come quando parlava della propria mano e delle sue imperfezioni. Teso, evidentemente teso. Una punta d’isteria. Rabbia. Quel trattenersi sfinente. - Mia madre invece era una di quelle bigotte di merda, il suo verso preferito della bibbia è taglia l’oggetto dello scandalo! - Qualcuno all’orecchio glielo citò riconoscendolo e Don immaginò che dall’ufficio Larry stesse guardando e sentendo.
Così Don lo citò, era un passo dell’antico testamento.
Jason si calmò e si zittì colpito, estremamente colpito. In un attimo trovò la conferma che cercavano. Avevano davvero qualcosa in comune.
- Anche i tuoi…? - chiese senza finire, intendendo se erano bigotti e omofobi.
Don dovette improvvisare e lo fece bene annuendo malinconico mentre scioglieva le braccia, dimostrando finalmente l’apertura che voleva Jason.
- Mio padre è rimasto all’epoca preistorica. Un po’ perché è cresciuto in una fattoria, un po’… mah, cultura, penso. Che ne so! - Don continuò a fare la parte di quello restio a parlare di sé, ma vedendo che qualcosa lo diceva, Jason continuò a cogliere ogni input per dimostrargli che con lui poteva stare tranquillo.
- Anche io sono cresciuto in una fattoria, ereditata dalla famiglia di mia madre. Mio padre odiava quel lavoro, preferiva la caccia, anche se poi era bravo a occuparsi delle bestie e tutto il resto. Ma mio padre odiava tutti. Anche me. L’unica in grado di tenere testa a quel bastardo era mia madre. Lei mi faceva più paura di lui… - Jason iniziò a parlare come se non avesse mai visto l’ora di farlo con qualcuno.
- Parli di loro al passato… - Sottolineò Don. Jason annuì con un sorriso liberatorio.
- Sono morti dieci anni fa… In questi giorni c’è l’anniversario, sono tornato qua per questo. - Ormai era un’intera orchestra, nella testa di Don. Era lui e si stava delineando tutto il quadro completo, stava trovando la storia e probabilmente Jason era così felice dall’aver trovato uno spirito affine, come cercava da sempre, che stava abbassando le difese e diceva e mostrava molto più di quello che sarebbe stato prudente.
- Azzardo che non ha idea di chi sei o la conversazione sarebbe diversa… - Disse Colby all’auricolare di Don. Don concordava. La sensazione era quella, ma non si poteva abbassare la guardia.
“Avendo tempo lo conquisterei, lo circuirei convincendolo che sono come lui, che cerco il coraggio di cominciare, di fare quello che fa lui, così si fiderebbe e mi porterebbe a Tyler, ma non penso d’avere così tanto tempo. Se si fidasse subito fino a questo punto sarebbe una finzione, non devo tirare troppo la corda. Mi basta che uscito di qua vada da lui.”
- Mi dispiace… - Disse come si conveniva dire in quei casi. Jason ridacchiò amaro alzando le spalle, facendo spazio per i piatti che la cameriera stava portando.
- È successo da molto, è stata una liberazione. Quando la fattoria è bruciata con loro dentro ho colto subito al volo la palla… era ora di cambiare, girare pagina. Mi sono sentito molto libero. So che non dovrei dirlo, ma non mi hanno reso la vita facile. Sai, uno raccoglie quello che semina. Loro non meritavano la mia pietà all’epoca, non la meritano nemmeno adesso. - Disse con maggior durezza, cominciando a mangiare con voracità. Decisamente il rapporto col cibo non era sano.
“Deve compensare la mancanza d’affetto che non riesce a trovare.”
Pensò logicamente Don, realizzando che ora doveva dirgli lui qualcosa o avrebbe mangiato la foglia.
- Niente di così tragico, comunque. - Rispose Don poi, mangiando anche lui con più tranquillità. - Mi hanno rapinato, aggredito e pugnalato. Mi sono salvato per un pelo, mi hanno tolto mezzo polmone, ho visto com’era di là e non mi piaceva. Così sono tornato ed ho fatto di tutto per rimettermi. Ho giurato a me stesso che non avrei mai più permesso a nessuno di farmi paura. Mai più. Così mi sono impegnato per cacciarla. Se ti senti debole, diventa forte. Nessuno ha il diritto di calpestarti. Se ti fanno paura ti calpestano. - Don tirò fuori un po’ delle sue filosofie immaginando che uno così potesse andare a nozze con qualcosa del genere e vide di nuovo gli occhi di Jason illuminarsi di una luce impaziente, come se non vedesse l’ora, come se ormai fosse sicuro e non potesse resistere.
Davvero era stato tutto un caso il loro incontro?
Don ancora non ci credeva.