*Ecco un altro capitolo. Un istante di sospensione per ricordare un momento specifico per Colby, il momento in cui Don in passato ha ammesso che lui era diverso dagli altri, per poi tuffarsi nell'azione delle indagini che arrivano al picco, o così sembra. La squadra arriva al rifugio dove ci sono Jason e Tyler, cosa troveranno? Avranno fatto in tempo? Riusciranno a prenderlo o devono prepararsi a qualche sorpresa? Buona lettura. Baci Akane*

24. SFIORANDO IL PROIETTILE



"Dove vai quando il cielo ti chiama Cosa fai, a chi ti rivolgi Quanti anni avrai quando alla fine ti prenderanno Non smettere di muoverti, sono proprio dietro di te [...] Che cosa si prova quando l'inferno ti circonda Quanto caldo fa, penso di avrlo già sentito Se c'è una via d'uscita, meglio che la trovi"
- The sniper at the gates of Heaven - The Black Angels -


Le tracce dell’auto andarono fuori sentiero, fra gli alberi, segno che stavano per arrivare. Don tirò fuori la pistola, imitato dagli altri a cui lanciò un’occhiata d’attenzione, un dito sulla bocca per indicare silenzio e si inoltrò per primo, seguito a ruota dagli altri con le pistole in mano e i sensi all’erta.
Proprio poco prima che il rifugio fosse visibile, a Colby venne in mente un episodio in particolare.
Quel giorno era uscito di strada durante un inseguimento, la macchina si era ribaltata, con lui c’era Nikki che aveva sbattuto la testa e perso i sensi.
A fatica si era trascinato fuori, l’aveva presa e portata via, la macchina era esplosa poco dopo.
Aveva chiamato subito i soccorsi, poi aveva chiamato Don.
Don non perdeva mai la calma ed il sangue freddo ad eccezione per cose che riguardavano Charlie, episodi in cui si era trovato seriamente in pericolo.
Sul momento non aveva detto nulla, solo fatto una serie di domande pratiche su dove erano, come era la macchina, in che condizioni erano.
Poi dopo un paio di minuti, poco dopo l’ambulanza che si era subito occupata di Nikki, era arrivato lui.
Per prima cosa i paramedici si erano affrettati a dirgli che l’agente stava bene, aveva una commozione cerebrale, una ferita alla testa ed una probabile lussazione alla spalla. La volevano portare al pronto soccorso.
Don aveva detto che andava bene, si era affacciato al lettino, si era chinato per vedere come stava, lei era sveglia ed aveva dato l’ok con le dita.
Su Colby gli avevano detto se voleva salire, aveva del sangue che usciva da una ferita alla fronte. Colby aveva detto che stava bene, si stava pulendo con un fazzoletto.
‘Certo che ci vai!’ Aveva detto Don. ‘Lo porto io, ci vediamo là!’ Aveva poi aggiunto rivolto ai paramedici che aspettavano di partire. Così loro erano andati e lui e Don erano rimasti un attimo lì a guardarsi. Da soli lui si era tolto gli occhiali scuri e si era avvicinato, gli aveva tolto il fazzoletto con cui si stava pulendo la ferita, aveva guardato aggrottato poi senza dire nulla si era messo a pulirlo da solo usando dell’acqua sul fazzoletto di stoffa.
‘Sto bene, Don. Sono preoccupato per Nikki…’
‘Sta bene anche lei.’ Aveva detto brusco Don. ‘Tu piuttosto, hai altre ferite? Altre botte? Dolori? Guarda che spesso non capisci che hai male sul momento, hai l’adrenalina!’ Così Cobly si era fermato, facilitandogli così il compito di pulirgli il viso dal sangue. Sorpreso, shoccato anche.
‘Don, ti stai preoccupando per me?’ Aveva chiesto sorpreso. Don l’aveva guardato ancor più arrabbiato.
‘Per chi mi prendi? Sai che sei importante!’ Aveva vacillato, poi si era risposto razionalmente, con un bisogno sciocco di chiarire, per non illudersi. Perché in quel momento il suo cuore si era messo a battere fortissimo.
‘Sì beh, Nikki però è peggio, è svenuta…’ Don aveva sospirato spazientito e l’aveva fissato corrucciato, truce, con un forte istinto omicida.
O forse solo eccessivamente protettivo.
‘Colby, tu sei tu.’ Questa gli era uscita di botto, senza pensarla e controllarla. Colby aveva dimenticato la bocca aperta e Don aveva alzato gli occhi in alto, rendendosi conto di cosa aveva detto. Aveva imprecato, scosso la testa ed era tornato a pulirgli il viso fino al mento, dove il sangue era sceso. L’angolo della bocca. Lì era andato molto più lento.
‘Sai cosa intendo.’ Colby voleva dire che non lo sapeva, non lo capiva proprio. Perché un supervisore non doveva avere preferenze con la sua squadra.
‘Per cui se era David mi avresti ignorato per preoccuparti per lui?’
Don aveva sospirato di nuovo spazientito.
‘Ho lasciato Nikki sveglia e con i paramedici. Tu sei qua senza nessuno. Fra te e David mi preoccuperei per entrambi allo stesso modo.’
‘Ma tu hai detto…’ Di solito Colby non puntualizzava, non sottolineava le cose. Lasciava correre tutto. Quella volta si era messo a fare i puntini sulle i e Don aveva staccato la mano col fazzoletto dal suo viso e si era incantato con una luce pentita.
‘So cosa ho detto. Non c’entravano gli anni di servizio nella mia unità. Lo sai.’ Ma Colby aveva voluto capire, ne aveva avuto bisogno in quel momento. Per capire se aveva fatto bene a non accettare seriamente la corte di Charlie e a fare marcia indietro con lui mantenendo tutto sul piano dell’amicizia.
‘E cosa c’entra?’
Don si era morso il labbro.
‘Il nostro rapporto, Colby.’ Poi aveva scosso il capo, aveva fatto un passo indietro seccato e pentito, aveva preso il telefono ed aveva iniziato le telefonate per predisporre il ritiro dell’auto e una serie di ordini inerenti al caso.
Mentre parlava, aveva fatto segno a Colby di seguirlo in auto, con due sole dita ed uno sguardo di sfuggita.
‘Prima mi dice che sono importante e poi mi scarica con un dito e mezzo sguardo!’ Aveva brontolato Colby ebete.
Non aveva avuto il coraggio di tornare sull’argomento, perché Don era quello che lo faceva solo se voleva e forzarlo era inutile. Così aveva aspettato, l’aveva portato al Pronto Soccorso e si era assicurato che fosse controllato seriamente.
Colby tornò al presente e con un sospiro sperò di poter proprio tornare a parlare del loro rapporto, quella sera, a casa, come preventivato quella mattina.
Come se la sensazione giganteggiasse, ormai. Impossibile da gestire, da ignorare.

Come dei fantasmi, gli otto agenti si mossero in contemporanea intorno al rifugio, una casa in legno, piccola ed isolata in mezzo al bosco.
Il sole iniziava a scendere oltre la collina e le prime ombre degli alberi si alzavano, ma si vedeva ancora sufficientemente.
C’erano due porte, una sul retro ed una sul davanti, la casa era ad un solo piano, si vedeva un camino, una finestra per parete tutt’intorno. Avvicinandosi si erano mossi bassi e piano per non farsi vedere.
Quando furono in grado di vedere dentro, sbirciarono velocemente. Il dentro sembrava composto da una stanza grande principale ed un bagno. C’era uno spoiler, una vecchia cucina a legna dove si poteva cucinare, un tavolo, dall’altra parte un divano che probabilmente fungeva da letto.
Non era davvero molto grande, un rifugio di caccia a tutti gli effetti.
Dopo una prima occhiata, misero a fuoco due persone. Uno era lui, Jason, che camminava per l’ampia stanza con il pavimento in travi in legno. Un coltello da caccia in mano.
L’altro era Tyler, Don e Colby lo riconobbero.
Nudo.
Appeso a testa in giù. Dal colorito del suo viso probabilmente l’aveva appena sistemato in quella posizione. Don e Colby si scambiarono un’occhiata d’intesa, capendo che lo preparava al dissanguamento.
“È ancora intero.” Pensarono entrambi sollevati di non essere arrivati tardi.
“Probabilmente non aveva il coraggio di farlo subito, voleva goderselo un po’. Ha il sogno di una vita fra le mani, impossibile ucciderlo subito.”
Don si chiese poi se l’avesse seviziato. Dalle altre vittime non sempre era stato desumibile per il modo in cui lui li lasciava. In alcuni casi sembrava l’avesse fatto.
Jason si sedette sul tavolo, davanti a Tyler che lo fissava con uno sguardo fiammeggiante, di chi era carico di un odio senza pari.
L’aveva riconosciuto. Sapeva chi era. Sapeva cosa aveva fatto. Probabilmente quando si era svegliato aveva passato il tempo ad insultarlo con rabbia e ferocia, ignorando il fatto che l’altro avesse letteralmente un coltello in mano e fosse pronto a lavorarci su.
Jason piantò la punta della lama sul tavolo e iniziò a parlare, dall’esterno non riuscivano a capire, ma aveva un’aria allucinata, di chi non era presente, di chi stava delirando.
Parlava concitato, gesticolando, gli occhi spiritati. La posizione seduta tradiva una falsa calma, poiché dal volto e dalle mani si capiva che non era in sé.
Dopo aver controllato la situazione, Don sussurrò l’ordine alla trasmittente al polsino, dicendo di suddividersi quattro per porta ed entrare al suo segnale. Gli agenti scivolarono via dalle finestre e si posizionarono davanti alle due porte, pronti ad entrare con le pistole spianate.
Non poteva andare male, non poteva.
Le cose stavano andando secondo i piani, non c’erano sorprese e la fortuna aveva girato a loro vantaggio.
E fu lì, mentre Jason parlava, che Don diede il segnale e con un calcio per parte, le porte si spalancarono improvvise, facendo entrare i quattro agenti. Due chinati sulle ginocchia e due in piedi. Pistole pronte.
Si identificarono come l’FBI e gridarono di arrendersi e gettare l’arma.
Per Jason fu un riflesso velocissimo, appena aveva sentito il rumore delle porte, era saltato giù dal tavolo, planando direttamente dietro Tyler, appeso a testa in giù. Il coltello in mano, puntato sulla gola dell’uomo dai piedi legati ad una corda che passava a cavallo di una delle travi del soffitto. La stessa corda che Jason teneva con l’altra mano libera.
Ghiaccio. Situazione di stallo.
Si presenta quando entrambi hanno il coltello dalla parte del manico e si puntano l’arma uno contro l’altro. Quando nessuno dei due ha un evidente ed immediato vantaggio.
In un istante Jason e la squadra tattica di Don, che chiudeva le porte coi loro corpi, si ritrovarono in quella situazione.
In un secondo momento Jason realizzò chi era uno degli agenti che gli puntava la pistola.
In un secondo momento Don realizzò sopra cosa Tyler era appeso, davanti a cosa stava Jason in piedi. Una botola che dava sotto terra.
Un momento di troppo.
Jason non disse nemmeno mezza parola.
Piantò immediatamente il pugnale nel fianco di Tyler, lasciando perdere all’ultimo la gola, estrasse l’arma, tagliò la corda che teneva in mano, che teneva sospeso Tyler, poi mentre Jason saltava dentro la botola, Tyler vi cadde dentro a testa in giù poco dopo.
Ci fu un ‘merda’ generale, poi Don latrò ordini a tutto andare, di togliere Tyler, di sbrigarsi, di chiamare i soccorsi, di fermare l’emorragia, poi di muoversi a cercare Jason.
Alcuni si riversarono fuori quasi subito, a girare intorno alla casa alla ricerca di dove spuntava la botola interna sotterranea, altri cercarono di trovare la direzione giusta da sotto, una volta riusciti a togliere il corpo.
L’operazione in totale non fu lunga, ma un istante di troppo per impedire loro di essergli dietro e fermarlo immediatamente.
Due agenti si occuparono di Tyler. Per toglierlo dalla botola e sgomberare il passaggio ci avevano messo qualche minuto. Il sangue usciva copioso dalla ferita al fianco, poteva aver reciso qualche punto vitale, era sul lato destro, dove c’erano milza e fegato. Poteva aver anche preso il polmone, poteva aver fatto molti danni con una sola pugnalata nel posto e nel modo giusto.
Tyler cercò di rimanere sveglio, ma lentamente le sue urla di dolore si affievolirono fino a che non perse i sensi.
Nikki e Liz si infilarono nella botola prendendo una per parte le due direzioni.
Sotto la casa c’erano due gallerie scavate nel terreno che si diramavano una dalla parte opposta dell’altra, ad un certo punto si ramificavano entrambe, indice che c’erano diverse uscite.
Gallerie di caccia, tipo delle trappole per gli animali. Permettevano al cacciatore di posizionarsi in posti strategici senza farsi notare e passare inosservati. Di nascondigli per cacciare era pieno il bosco, non era insolito che nei pressi dei rifugi ci fossero gallerie simili, perfettamente mimetizzate nel terreno.
Luogo sconosciuto, con le ombre che si facevano via via sempre più fitte, presto persero la speranza di trovarlo.
Don e Colby erano all’esterno con altri due agenti che correvano sparsi per il bosco, le torce in mano puntate disperatamente nel terreno pieno di foglie e rami che facilitavano il mimetismo.
Dopo una corsa a perdifiato nell’insperato tentativo di trovarlo, di vederlo in quello che probabilmente era il suo bosco natio da cui scappava dal padre mentre abusava di lui da piccolo, dovettero fermasi per respirare e fare il punto della situazione.
Tutti comunicarono a Don come stava andando. Tyler se la stava vedendo male, ma era ancora vivo. Non si sapeva per quanto. La pugnalata al fianco invece che alla gola poteva avergli salvato la vita, ma gli aveva fatto perder tempo e tolto due agenti dalla ricerca sul posto.
Liz e Nikki da sotto il terreno dissero che era come cercare un ago in un pagliaio. Liz aveva trovato una delle uscite, ma di lui alcuna traccia, Nikki stava imprecando per trovarne una anche lei, senza comunque risultati soddisfacenti sull’inseguimento. Gallerie claustofobiche e piccole in ogni caso, dove la terra era sorretta da travi in stile miniere. Per correre si poteva fare, ma piegati in due e sporcandosi molto.
- Le conosce come le sue tasche, è andato liscio come una talpa che conosce le sue grotte! - Commentò Liz guardandosi intorno. Da lontano vide Colby e si avvicinò.
Lui e gli altri due agenti esterni comunicarono che non avevano visto nulla, ma che continuavano a cercare.
Poi il silenzio.
- Don? - Chiesero usando le trasmittenti ai polsi. Colby si aggrottò fissandosi apprensivo con Liz. Dovevano essere nei raggi di ricezione delle trasmittenti elettroniche che avevano. Usò la radio per la copertura più ampia, aperta solo per le emergenze in escursionismo come quelle. Ma non ricevette risposta.
Il sangue iniziò a gelarsi di nuovo nelle vene e questa volta il cuore si mise a correre come un pazzo in gola.
- Don, rispondi! - Quella paura non l’avrebbe dimenticata subito, non facilmente.
- Nulla, mi sembrava d’aver visto qualcosa, ma era un animale credo. E comunque se era lui, è scappato. Penso che se ne starà nascosto al sicuro finché non ce ne andiamo! - Sospirò seccato mentre gli altri della squadra sospiravano di sollievo, Colby in particolare che stava per insultarlo per non aver risposto subito.
- Chiamo una squadra di ricerca, faccio setacciare il bosco, continuate le ricerche finché non arrivano i rinforzi, occhi aperti perché siamo nel suo territorio, chissà quante trappole ha messo. Ha preparato lo scenario per un bel po’. - Don continuò a dare ordini mentre si dirigeva al rifugio a controllare Tyler e l’arrivo dei paramedici, troppo lenti considerando che si trattava di un soccorso urgente.
Colby, nonostante la voglia di andare da lui e dirgli di rispondere subito la prossima volta se non voleva provocargli un infarto, rimase a continuare la ricerca fino al suo richiamo.
- La squadra di ricerca è arrivata e si sta facendo buio, ci danno il cambio. Andiamo a casa. Per oggi non possiamo fare più di così. - La concessione di andare a casa con un killer in libertà non era da poco. Però capirono che era vero che non aveva senso continuare a setacciare un bosco setacciato da gente che faceva quello di mestiere.
Forse avevano schivato un proiettile, Colby si sentiva così. Eppure si poteva dormire e riposare sapendo che uno come quell’uomo era in libertà ed aveva appena scoperto che la persona adescata che gli aveva dato filo, era un agente federale e che l’aveva quasi preso?