*Ecco un altro capitolo. Avevamo lasciato Don e Colby sul più bello, durante il loro chiarimento a letto. Don finalmente sembra aver capito il motivo per cui Colby non ha mai espresso direttamente la propria volontà, come concluderanno ora? Dopo si torna al caso, il mattino arriva con una grossa sorpresa e per la fine del capitolo sarete solo più confusi di prima: molte risposte ed altrettante domande. Buona lettura. Baci Akane*

26. IPOTESI E CONCLUSIONI


"Mi allontano dalle cose che mi hanno procurato conforto Non posso rimanere nel luogo che considero la mia casa La mia unica fede risiede nelle ossa rotte e nei lividi che mostro"
- Bruce Springsteen - The Wrestler -

Colby non avrebbe più avuto il coraggio di voltarsi, si sentiva anche stupido oltre che nudo e scoperto. Una sensazione strana.
Aveva visto che lo perdonavano e non aveva mai pensato di dover mettere alla prova i loro sentimenti.
Dopotutto li aveva traditi per due anni.
Non poteva pretendere troppo.
Si sentiva scoppiare, si sentiva di voler gridare. Forse non aveva proprio più speranze con Don. Lui voleva che prendesse posizioni precise, che gli chiedesse di stare con lui, che esprimesse la sua volontà, ma Colby non poteva, non credeva di esserne in grado, di avere quel diritto. Per questo non aveva mai fatto nulla.
Non con lui.
Da quanto tratteneva il fiato?
Quando le sue mani lentamente scivolarono sui suoi fianchi il mondo svanì lento.
Il contatto con lui, deciso e quasi prepotente eppure in punta di piedi, silenzioso. Leggero.
Quel contatto così da Don.
L’avvolse con le braccia dopo essersi messo a sedere a sua volta sul letto, aveva spostato le lenzuola, gli si era messo dietro allargando una gamba dall’altra parte e si era sistemato lì, avvolgendolo con le braccia. Le mani sulla sua pancia, le labbra sul suo collo. A baciarlo.
Don si era sempre arrabbiato con lui per la sua mancanza di volontà, di comunicazione. Eppure solo ora capiva perché non poteva essere lui a dirgli ‘stai con me’.
Perché per lui quei due anni sotto copertura a mentire a loro erano incisi nella pietra.
Ecco perché Colby non poteva dire a Don di stare con lui, che lo voleva.
Così risalì con le labbra sul collo e dolcemente sull’orecchio.
- Stai con me, Colby. - Perciò lo disse lui.
Perché lui lo voleva senza più un solo dubbio. Perché l’aveva capito, gli era entrato dentro ed aveva compreso ogni suo gesto. E aveva capito quanto solo doveva essersi sentito in quei due anni, mentre inevitabilmente si legava a loro tanto poi da volerci rimanere lo stesso.
Colby non aveva mai pianto, gli era capitato di tutto, ma dopo la guerra aveva congelato le sue lacrime. Non aveva mai pianto. Ma l’ondata d’emozione che provò in quel momento non ebbe paragoni, non riuscì proprio a controllarla. Lo prese completamente alla sprovvista e mentre le lacrime scendevano silenziose, lui si girò e trovò le sue labbra.
Labbra che si intrecciarono insieme schiudendosi e fondendosi, con le lingue che si incontravano giocando insieme dando vita ad un altro bacio lento e sensuale, un bacio sentito ed assaporato. Un bacio che sapeva un po’ di lacrime, ma che nonostante questo era dolce.
Un bel bacio.
Lungo. Ma solo un bacio.
Don si spostò da dietro di lui e alzò il braccio dal torace al collo, cingendolo in quel modo lo tirò giù con sé, si stesero insieme uno accanto all’altro, si ricoprirono con le lenzuola e coi corpi a diretto contatto uno sull’altro, col braccio possessivo che lo teneva a sé, continuarono a baciarsi da stesi.
Fino a che, senza dire più una sola parola, si addormentarono insieme, abbracciati e finalmente sereni.
Una di quelle notti diverse da tutte le altre. Uno di quei sonni perfetti.


Trovò particolarmente faticoso aprire gli occhi quella mattina.
La testa gli doleva molto, era come se sentisse il sangue battere contro il cranio, ebbe paura di un ictus per un momento.
Cercò di toccarsela, ma qualcosa glielo impedì.
Don tirò le braccia e si aggrottò con ancora gli occhi chiusi, incollati, pesanti.
Cercò di esercitare più forza ma si rese conto che non ne aveva.
Mugolò lamentandosi, la lingua legnosa, la bocca impastata.
- Che diavolo… - Borbottò con voce strascicata e cavernosa.
Non ci fu verso di sbloccare le mani e quando capì che a tenergliele giù erano delle corde, spalancò gli occhi di scatto. La scarica di adrenalina glielo permise, un istante per realizzare che era legato, un istante per svegliarsi, sia pure ancora appesantito e confuso.
Don aprì gli occhi e si guardò intorno non riconoscendo la camera di Colby.
Quindi girò la testa dove doveva essere il suo compagno, ma vide che non c’era nessuno.
Era prevalentemente buio, ma un po’ si vedeva, segno che la notte stava giungendo al termine e da qualche finestra chiusa, filtravano i primi segni di un timido mattino.
La stanza era vuota e sconosciuta.
Era steso su un letto matrimoniale vuoto, al centro. Le braccia e le gambe erano legate ai quattro angoli e lui era nella tipica posizione da croce.
L’odore che sentì in un secondo momento era di polvere e chiuso.
Individuò una finestra, ma vide che erano state inchiodate delle tavole dall’interno. Cercò la porta, chiusa probabilmente a chiave. Un cassettone con specchio, un armadio. Lo specchio era scheggiato e impolverato, così come un lenzuolo di polvere copriva il resto della camera. Don abituò presto i propri occhi a vedere al buio. Il soffitto aveva delle travi a vista e su una di queste c’era una corda che passava pendendo verso di lui.
Don si aggrottò ancora e realizzò.
“Mi ha preso, mi ha trovato e mi ha preso e portato chissà dove. Aveva un secondo posto. Mi avrà seguito da quando siamo andati via dal bosco, ha aspettato che dormissimo per entrare in casa e senza farsi sentire ci ha messo fuori gioco nel sonno. Colby. Colby deve stare bene. Non può averlo ucciso. Non era interessato a lui, quando ammazza non lo fa in modo semplice e veloce, per lui è un arte, non può averlo fatto.”
Don rifletté cercando di non farsi prendere dal panico. Immaginò altri dettagli su come potesse averlo portato via. Era un uomo grosso ma non così tanto da poterlo portare via da solo a spalla.
“Avrà usato un carrello, una sedia a rotelle… sa il fatto suo. Lo sapevo questo. Quando non ha voluto lasciare traccia del suo passaggio, non l’ha lasciata. Ha ucciso molto, ma ha esposto i corpi scolpiti solo di alcuni di loro. Gli altri non hanno traccia se non nelle parti che ha lasciato nel furgone. Significa che alcuni di essi non li ha scolpiti, li ha solo uccisi. Perché questa differenza? Erano le persone troppo vicine a Los Angeles, non voleva che capissero che lui ruotava sempre intorno a Los Angeles. Deve avere un posto preferito dove li seppellisce, deve avere più di un rifugio fisso, un posto di riferimento sicuro dove stare mentre non è in attività.” Don continuò con le congetture sulla scia dell’adrenalina. Lo stordimento andava via via scemando, ma anche se recuperava le forze, le corde erano legate troppo bene. Constatò che faceva dei nodi da professionista.
“Ha lavorato in una fattoria sin da piccolo, suo padre lo portava a cacciare, gli ha insegnato i trucchi, infatti è stato astuto e silenzioso. Ci ha messi fuori gioco senza che ce ne accorgessimo e noi siamo due agenti federali ben addestrati.”
Guardò ancora una volta le corde.
“Più tiro più si stringono.” Poi cercò di capire se si poteva rompere lo scheletro del letto. “In metallo, ferro battuto nero, lavorato a mano probabilmente. Sarà stato lui? Mentre non uccideva cosa faceva? Poteva procurarsi il cibo cacciando, uno come lui può saper sopravvivere. Magari mimetizzava il furgone ricoprendolo con un telo. È uno che sa come passare inosservato, è stato trasparente. Se la fattoria è bruciata ed i genitori sono morti, avrà incassato una bella assicurazione sulla vita. Può aver avuto tutto in contanti ed essere partito. Perché rubare il furgone quando poteva prenderne uno? La sua famiglia avrà avuto un furgone, sicuramente. Perché non usare quello? In questo modo è trasparente, è un fantasma, non esiste. Non c’è niente di suo che va in giro, registrato col suo cognome. Né un conto, né una macchina, né una casa, né un contratto di lavoro. Come si procurava le cose che gli servivano? Munizioni per cacciare, attrezzi per fare le sue ‘opere’. E poi andava per locali per trovare le prede, si sistemava per passare inosservato, era pulito, vestito in modo adeguato. Probabilmente vendeva quello che creava. È un cacciatore ed uno scultore. Nei boschi, nelle riserve di caccia, ci sono rifugi. Se sai come muoverti trovi tutto quello che ti serve. Avrà avuto molte basi, probabilmente qualcuno lo ha conosciuto, magari ha anche legato con lui. Qualche gruppo di cacciatori, può aver chiesto favori. Può aver venduto le sue prede a qualche macellaio o a qualche privato. Ci sono molti viaggiatori che vendono cose proprie. Se è bravo con le mani può aver creato cose col ferro battuto o con altri materiali, col legno, magari. Possiamo trovare tracce di creazioni, di artigianato in ogni rifugio in cui è stato per collegarlo a lui, creare il suo percorso, posizionarlo in tutti i posti dove ha ucciso e anche trovare i corpi che ha nascosto.” Don continuò a pensare come una macchina, senza respirare, senza sosta, spedito come un treno. Immaginò di poter dare ordini, avrebbe spedito Nikki e Liz a seguire la traccia dei rifugi, sapendo dove cercare grazie alla provenienza delle sparizioni dei pezzi dei corpi ritrovati nel furgone, si poteva partire per trovare dei rifugi nei boschi, nelle riserve di caccia. Una volta trovati i rifugi con dentro tracce di artigianato, di lavori a mano, di sculture di qualche genere, si poteva cercare intanto sue impronte e DNA, poi in giro le vittime non rivelate.
Il suo sistema consisteva sempre nello svuotare i corpi del loro sangue, raccoglierlo ed usare per dipingere le pareti? O a volte uccideva anche in altro modo?
“Dissangua perché scolpire è più facile, poi usa un sistema di conservazione sia delle parti che preleva, sia per la scultura che crea. Poi dipinge le pareti col loro sangue, per lasciare una firma. Poi la sua firma è diventato il furgone rosso, ma per molto tempo non è stato notato, lui pensava di non farlo notare, non voleva disfarsene, era legato a quel furgone. Perché era del cugino di Tyler, la sua prima ossessione. Tyler ha fatto scattare qualcosa in lui, da giovane gay represso e respinto che non osava, a psicopatico che passa all’azione ed ammazza chi non lo accetta. Ma forse le vittime che non ha messo in posa non le ha dissanguate, a loro può aver riservato altri trattamenti. Perché due modus operandi? Due persone? Le avremmo notate. Schizofrenia? Potrebbe essere. È un artista ed un cacciatore. Da un lato usa i sistemi del cacciatore, ha giocato con noi quando è arrivato a Los Angeles, ci ha dato il furgone, ci ha distratto, ma ci ha anche dato molti indizi grazie ai quali siamo arrivati a lui. Il senso della caccia. E poi c’è la sua vena artistica, sensibile. Crea, scolpisce… Larry stava lavorando al significato delle sue opere, stava individuando le opere originali delle sculture a cui si ispirava e che riproduceva e cercava di metterle insieme per vedere se veniva fuori qualcosa su di lui, sulla sua personalità, sul perché sceglieva quelle.” Ovviamente aveva spiegato con quale sistema praticava quella trasposizione, che valori di riferimento usava e come pensava di riuscirci. “Avrei proprio bisogno di quelle conclusioni, ora.” Pensò Don sospirando e chiudendo gli occhi.
La testa gli faceva ancora male, ma aveva tirato fuori un bel po’ di cose.
“Il problema è che non posso comunicare con la mia squadra.” Disse seccato fra sé e sé.
Non voleva chiamarlo e fare rumore, meno stava con lui e più possibilità aveva di uscirne vivo, doveva lasciare il tempo alla squadra di trovarlo.
E con questo si intendeva che dovevano rendersi conto che Jason era arrivato a lui, che l’aveva preso e rimettere in sesto Colby. Sempre che fosse ancora vivo e che l’avesse solo addormentato.
Improvvisamente la possibilità che l’avesse ucciso tornò.
“Se è schizofrenico può prendere delle medicine, ma devono essere prescritte. A meno che non se le faccia procurare da qualche spacciatore di turno. Ma qualcuno deve avergliele prescritte la prima volta, sempre che sia così. Che lui sia schizofrenico. E anche se lo fosse, non è detto che si cura. Dato che queste due personalità si sono alternate. Ma è anche vero che è un sistema molto lucido d’azione. Esponeva solo quando era ben lontano da Los Angeles, mentre nascondeva solo quando era vicino. Questo non è il sistema di uno schizofrenico, anche se forse la personalità del cacciatore è quella più razionale e metodica, un cacciatore deve essere lucido, organizzato e fare tutto secondo un sistema, una ragione e in modo molto efficace. In realtà entrambe le teorie sono ancora plausibili.” Don sospirò battendo la testa contro il cuscino frustrato. “E se sono davvero in due? Se fossero in due uno dei due si sarebbe occupato di Tyler, la personalità artistica, mentre quella del cacciatore ci avrebbe seguito, avrebbe saputo che io ero un agente, invece nei suoi occhi c’è stato stupore quando mi ha visto nel rifugio. E poi comunque ad un certo punto si sarebbe ricongiunto. Va bene agire separati, ognuno i propri compiti, ma a quel punto si perde il senso della squadra, dell’agire insieme. E poi se sono già in due perché cercare l’anima gemella? Magari sono due fratelli? Cercano cose diverse ma hanno gli stessi istinti? A volte soddisfano uno, a volte l’altro?”
Il tempo a disposizione era molto e nel dover rimanere sveglio e attivo, Don creava e disfaceva molte teorie.
Fuori ormai era mattina inoltrata. Don notò la luce filtrare e sospirò.
“La squadra avrà ormai trovato la provenienza di Jason, il suo nome, la sua storia. Avrà finito le ricerche. Sapendo chi è si possono scoprire molte cose, Colton Martin può aiutarli, lo interrogheranno di nuovo. Se sono in due verrà fuori. Uno si espone e fa l’esca, l’altro sta nell’ombra e caccia, fa il lavoro grosso. Poi a seconda di chi piace a chi decidono il sistema. Il cacciatore sa quando è il caso di nascondere e quando si può esporre, è quello più stabile a livello mentale. Forse è anche sano. Jason è troppo poco lucido. Ma l’avremmo visto nel rifugio. L’avremmo visto, sarebbe intervenuto, ci sarebbe stato.”
Gli scenari continuavano a cambiare e a complicarsi, tanto che Don frustrato decise di smetterla e ragionare in base alle prove e alle tracce avute fino a quel momento.
“Le prove dicono che c’è un uomo gay che ha ammazzato a seconda dei propri gusti durante la sua maturazione. Le vittime crescevano con lui e nel tempo i suoi gusti sono cambiati anche a livello di preferenze di tipologia di uomo. È stato graduale. Non andava ad alti e bassi. Non cambiava bruscamente.  Le vittime le ha sempre scelte lui. A prescindere da quanti sono. Se sono in due non è detto che anche l’altro sia gay, l’altro è un cacciatore, uccide perché gli piace, ma fa scegliere al collega chi, glielo fa individuare a lui e quando gli dice che non va bene perché lo ha respinto, decidono chi si occuperà di ucciderlo. Una volta nel metodo dell’artista gay, perché sono lontani da Los Angeles e si può fare, un altro nel sistema del cacciatore, perché sono troppo vicini e non si può fare altrimenti. Ciclicamente venivano a controllare Tyler, lo spiavano. Jason lo spiava. Era l’ossessione di Jason. L’artista gay. Il collega cacciatore gestiva Jason in base ai suoi desideri, ma sempre tenendo sotto controllo il bene di entrambi, per non essere mai trovati, non lasciare tracce e giocare con le forze dell’ordine solo quando si poteva fare, quando si era lontani da casa e sicuri di non essere riconosciuti. Faceva in modo di non lasciare troppe tracce, misurava gli indizi da lasciare alla polizia. È il cacciatore la testa, sa il fatto suo. È a dir poco geniale. Si è giostrato fra Jason e sé stesso facendo in modo che fossero tutti contenti e tutti soddisfatti e senza mai rischiare quando non era il caso. Se poi siano in due persone o solo due personalità non lo so. Il fatto è che due modus operandi si spiegano solo così. La prova è questa.” Don si fermò ancora, si guardò intorno e cercò di capire l’ora tenendo conto che probabilmente era in un rifugio nel bosco.
Le otto?
“Ma la domanda è come mai se sono in due, il cacciatore che controlla e pianifica non ha detto all’artista gay che aveva abbordato l’agente federale in carica del loro caso?”
Così Don cominciò a carezzare l’idea che fosse schizofrenico e che dipendeva dalla personalità che prevaleva nel momento.
Dopo di questo, poco dopo questa considerazione, la porta della camera si aprì.