3. MOSTRA DEGLI ORRORI



"Sono un tuono che rimbomba,
una pioggia battente,
sto arrivando come un uragano
Il mio fulmine sta illuminando il cielo,
tu sei ancora giovane ma morirai
Non farò prigionieri,
non risparmierò vite,
nessuno si ribellerà
Io ho la mia campana,
ti porterò all’inferno
Io ti avrò, Satana ti avrà"

/Hells Bells - AC/DC/


La segnalazione veniva da un furgone rosso parcheggiato davanti alla stazione.
Il furgone era lì da diverso tempo, chiuso, senza alcun padrone. Quando i vigili erano venuti a multarlo, avevano fatto la ricerca sulla targa ed era venuta subito fuori la segnalazione dell’FBI.
Il furgone era legato ad un famoso caso distribuito su tutta la California.
Il soggetto era un efferato serial killer sadico che uccideva le sue vittime in modi macabri lasciando scene del crimine raccapriccianti e prelevava sempre dei souvenir.
Costui viaggiava su un furgone, sempre lo stesso e appena l’FBI locale gli arrivava vicino, lui scappava, si dileguava senza lasciare tracce.
Non conoscevano l’identità dell’uomo, solo il suo modus operandi molto particolare, gli piaceva firmare le scene in modo da far sapere che era lui.
L’ultima volta erano riusciti a scoprire il suo mezzo di fuga, una sorta di seconda firma.
Nei luoghi dei delitti, le videocamere filmavano sempre questo furgone rosso parcheggiato, era sempre messo in modo che la targa non si potesse leggere, perciò presupponeva un accurato studio del posto di volta in volta.
Faceva un omicidio per regione, poi se ne andava. I federali arrivavano sempre tardi, lui non lasciava mai prove per trovarlo, capire dove avrebbe colpito, quando e soprattutto chi era.
Era come un fantasma che si faceva vivo una volta ogni tanto, in qualche parte della California, a fare scorta. Ma non di benzina, bensì di adrenalina e corpi.
L’ultima volta aveva fatto un errore, non erano sicuri se fosse stato intenzionale perché si cominciava a sentire solo e l’adrenalina non bastava più, perciò poteva aver voluto alzare il tiro dandogli un indizio. Però avevano una targa.
Il furgone risultava rubato, c’era una denuncia vecchia a suo carico a nome di Colton Martin, ma il mezzo era quello del caso internazionale a cui i federali stavano dietro da anni e dopo un’indagine preliminare, avevano constatato che il signor Martin aveva sempre alibi incrollabili per tutti gli omicidi passati.
Appena rilevato il riscontro, il vigile aveva chiamato subito l’FBI locale di Los Angeles, come indicato nel comunicato allegato alla segnalazione.
La chiamata era passata al centralino che aveva controllato a quale caso era collegato il furgone in questione, realizzato di cosa si trattava aveva subito contattato Don Eppes, l’agente capo di turno quel giorno.
Quando l’avevano chiamato, gli avevano spiegato di quale caso si trattava ma lui non aveva avuto bisogno di altri dettagli. Quando era stata inoltrata la segnalazione sul furgone rosso, aveva studiato il caso nella speranza di imbattersi in tale indagine. Dopotutto sapeva che Los Angeles, tappa mancante del killer, era una delle mete più ambite dagli psicopatici che viaggiavano.
Il soprannome che la stampa gli aveva dato, era il killer scultore per la particolarità di quel che faceva al di là dell’utilizzo del furgone rosso.
La firma sulle scene del crimine erano le pareti rosse. Completamente rosse.
Dissanguava completamente i cadaveri, per fare ciò si prendeva tutto il tempo necessario e non era un procedimento che si svolgeva in poco tempo. Dopo averli dissanguati, li dissezionava e li faceva a pezzi e faceva sculture intrecciando le parti del corpo con altri attrezzi ed oggetti. Riproduceva opere d’arte famose come se scolpisse delle statue, ma a modo suo, una sorta di revisione moderna.
Poi il sangue lo spargeva per le pareti, dipingendolo con un rullo ed un diluente per riuscire a spalmarlo meglio.
Da queste vittime, però, prelevava una parte del corpo che poteva essere interna od esterna, a volte il cuore, a volte il cervello, altre gli occhi oppure anche braccia o piedi… Una serie di dettagli avevano dato vita al suo modus operandi che facevano capire ai federali che si trattava di lui.
Purtroppo non avevano traccia sulla sua identità e soprattutto su come si muovesse.
Don appena arrivata la segnalazione del furgone, aveva chiesto a Larry ed al suo assistente che sostituivano Charlie, di provare a capire se c’era uno schema di viaggio o qualcosa di simile, o se andasse completamente a caso.
Larry non aveva trovato uno schema, così gli aveva solo detto quello che già sapeva.
‘Los Angeles è meta ambita per gli psicopatici, in questo caso il detto aspetta sulla sponda del fiume che il cadavere del nemico passerà, lo si può adattare. Aspetta sulla sponda del fiume e sarà il nemico a venire da te.’ Don l’aveva corretto lugubre e pessimista. ‘sì, con un altro cadavere.’
Larry aveva sperato che non fosse così, ma ovviamente stavano per scoprire chi aveva ragione.
Appena ricevuto la chiamata, Don aveva dato ordine all’agente del centralino di fermare chiunque fosse sulla scena del crimine, non dovevano toccare né aprire il furgone.
- Sgomberate la zona immediatamente! - Aveva concluso.
Non sapendo cosa trovarsi, doveva pensare al peggio.
- Pensi ad una bomba? - Chiese Colby in macchina con lui mentre guidava come uno spericolato per Los Angeles.
- Penso al perché abbandona il furgone in un luogo così in vista ed affollato. Sapeva che l’avrebbero trovato. - In quei casi la prima cosa da pensare era la più grave, di conseguenza una bomba.
Don e Colby arrivarono poco prima di Nikky e Liz.
Don scese e con la trasmittente cominciò a gridare ordini a tutti gli agenti di supporto accorsi che già sgomberavano la zona.
- Allarghiamo il perimetro! - Tuonò Don con il giubbotto antiproiettile, gli occhiali da sole, la trasmittente appesa alla spalla che schiacciava per attivare la comunicazione mentre parlava, l’altra mano che indicava a destra e sinistra chi doveva fare cosa.
Non esitava mai, aveva sempre le idee chiare.
La squadra artificieri arrivò subito, il capo avvicinò Don non avendo dubbi su chi fosse al comando e chiese ordini. Don indicò il furgone e spiegò brevemente di cosa si trattava.
- Sappiamo che è un serial killer efferato, quella è la sua base mobile. Non è mai stato preso, non siamo mai andati così vicino a lui. Non abbiamo idea di cosa aspettarci, non ha mai lasciato il furgone in questo modo. - L’uomo di mezz’età aveva l’aria di chi ne aveva viste molte ed annuendo andò a chiamare il suo artificiere migliore dicendogli di mettersi al lavoro, poi indicò a Don di farsi indietro.
Don eseguì ed in quello tornarono i membri della sua squadra che avevano eseguito gli ordini primari. L’area era in sicurezza, larga e sgombera.
- Sparpagliatevi e controllate meticolosamente tutte le persone che sono nei dintorni a guardare. Sono sicuro che si goda lo spettacolo. Di qualunque cosa si tratti, bomba o meno, lui è qua che guarda le nostre facce mentre riceviamo il suo regalo! - Gli altri annuirono ed andarono senza esitare, solo Colby esitò un attimo.
- Non sei troppo vicino? Se esplode il suo raggio ti prende… - Colby era molto esperto di ordigni, in guerra ne aveva incontrati e conosciuti molti e sapeva distinguere ad un colpo d’occhio quale fosse uno o l’altro e quanto grave l’esplosione. Quelli usati per i furgoni potevano essere di gittata minore, creati solo per far esplodere il veicolo, e al di là di quello non facevano danni. Oppure di gittata grande, usati come ‘pacco’ per far più danni possibili.
- Quell’affare può essere pieno zeppo di esplosivo! -
- In quel caso non si salva nemmeno il quartiere! - Rispose lugubre Don che voleva tenere d’occhio la situazione, non sapendo cosa aspettarsi.
Potevano anche esserci delle nuove vittime in agonia, poteva esserci lui stesso che tentava chissà quale mossa. Non poteva allontanarsi troppo.
Quello era IL SUO furgone. LA SUA scena del crimine. IL SUO caso, ormai. E avrebbe fermato LUI quell’uomo.
Colby sospirò e scosse la testa spazientito, con Don ti facevi male tu, ma lui non mollava, ormai l’aveva imparato.
Quando lo vide abbastanza lontano da lì, Don tornò a girarsi più tranquillo. Anche nel caso di una bomba di grandi dimensioni, da là Colby sarebbe stato al sicuro.
Tornò a guardare l’operato degli artificieri che si muovevano con cura ed attenzione coi loro macchinari sofisticati. Quando finirono di passare a scansioni varie, comunicarono che nelle serrature e in esterno non c’erano collegamenti di alcun genere. Così aprirono il portellone posteriore su consenso di Don che fissava torvo, da un paio di metri, l’interno che finalmente si rivelava a lui.
Non gli serviva essere vicino per capire cosa c’era dentro.
Non si trattava di una bomba.
L’artificiere resistette un paio di minuti, il tempo necessario per assicurarsi che i rilevatori non intercettassero alcun materiale esplosivo nascosto in qualche angolo, poi con un cenno di via libero corse dall’altra parte, lontano da quel posto osceno, a vomitare.
Probabilmente per quanto le esplosioni fossero raccapriccianti, quello spettacolo era diverso.
Il capo degli artificieri diede l’ok a sua volta a Don il quale si avvicinò togliendosi gli occhiali scuri e massaggiandosi la bocca con un gesto della mano che indicava lo sforzo per rimanere calmo ed impassibile, lo sforzo per guardarlo.
Eccola lì la sua scena del crimine. Adesso avrebbe dovuto guardarci dentro mille altre volte, in quell’inferno.
Un inferno che, se non sarebbe stato attento, l’avrebbe ingoiato.
Vedendo che era fermo davanti al furgone aperto, Colby corse da lui per vedere cosa ci fosse, nonostante gli ordini di controllare la gente intorno erano chiari e tendenzialmente Colby non sovvertiva mai.
Si fermò dietro di lui e fece lo stesso gesto di Don, ma la sua mano frenava un conato di vomito.
Appesi ed esposti con cura meticolosa, riposti in vari ripiani, scatole, appendini, c’erano tutti i souvenir delle sue opere, accuratamente fotografate ed esposte sulle pareti come una specie di puzzle o mostra degli orrori.
Tutti gli organi e parti dei corpi delle vittime.