*Eccoci con un altro capitolo. Qua ormai siamo nel momento clou. Don e Colby sono nella scuola alla ricerca di Max, Colton e Tyler, mentre questi tre cominciano a fare il punto della situazione. Tyler sta male e non ha idea di che cosa succede, mentre Colton cerca disperatamente un sistema per cavarsela ancora una volta. Ma Max non ha la minima intenzione di permetterlo, finalmente ha aperto gli occhi grazie a Colby. Le due squadra stanno per riunirsi in un faccia a faccia finale. Buona lettura. Baci Akane*

39. PALCOSCENICO


don colby

"La conoscenza dell'amore è conoscenza dell'ombra"
/Pink Floyd - Set the controls for the heart of the sun/


Camminare veloce per Don era un utopia, però Colby non si sarebbe sognato di separarsi da lui. Non lo toccava e non lo scortava, ma gli stava davanti con la mitraglia puntata, mezzo occhio su Don dietro di lui, stava al suo passo, non andava veloce. Entrava aula per aula e se c’erano studenti intenti in qualche attività serale, faceva il segno del silenzio e mostrava il distintivo appeso al collo. Chiedeva piano se aveva visto due uomini più uno in carrozzina, poi li faceva uscire.
Ebbe fortuna con un gruppo di studenti di musica che venivano trafelati col telefono in mano, appena li videro, si fecero avanti chiudendo il cellulare.
- Siete agenti, vero? - Chiesero allarmati, i visi di chi aveva visto qualcosa. Don e Colby lo capirono subito. Da come i loro strumenti musicali tremavano nelle mani, da come erano pallidi e dai loro sguardo agitati. Lo capirono subito.
Ed i cuori cominciarono ad andare più veloce, l’adrenalina aumentò e Don improvvisamente si sentì bene, pieno di energie. Un effetto a scadenza, ma che avrebbe sfruttato fino in fondo.
- Ci sono tre persone strane in aula magna, stavamo facendo le prove finali per il concerto e ci ha mandato via.  - Disse un giovane.
- Inizialmente erano in due, uno sulla sedia a rotelle, stava male, aveva un bavaglio sulla bocca e le mani legate, sembrava un paziente d’ospedale, una brutta cera. - Continuò una ragazza che parlava a macchinetta.
- E l’uomo che lo spingeva aveva una pistola, ha detto di uscire dall’aula o avrebbe iniziato a sparare a caso. -
- Ma poco dopo è arrivato un altro uomo, sembrava venuto a controllare quello con la pistola perché era calmo e sembrava a posto, ci ha detto che sarebbe andato tutto bene e di uscire e chiamare la polizia. -
- Così siamo usciti subito. Loro sono lì dentro e non sappiamo cosa sta succedendo! - Colby e Don annuirono, sospirarono e li mandarono fuori dalla scuola, chiesero di aspettare per la deposizione, ma di non entrare fino a nuovo ordine. E di far uscire altri studenti se incontrati.
I giovani lo fecero di corsa e ben volentieri, Colby chiamò a raccolta con la radiotrasmittente tutti gli agenti facendoli convergere in aula magna, ripeté l’ordine di entrare ma non sparare perché c’era un ostaggio.
Nel frattempo Don prese il proprio telefono recuperato grazie a suo padre che glielo aveva portato quando era venuto a trovarlo in ospedale, insieme ad altri effetti quali il distintivo.
Attivò la registrazione vocale e se lo mise a metà nel taschino davanti del giubbotto.
- Meglio avere una registrazione che provi immediatamente la colpevolezza di Colton, è capace di negare tutto in tribunale e di uscirne pulito! Dobbiamo incastrarlo ora! - Colby si stupì di questo pensiero, da un po’ di tempo, da quando Charlie se ne era andato, Don aveva iniziato a cambiare metodo di indagini, era più riflessivo, cercava di capire meglio i meccanismi e le motivazioni in modo da arrivare all’origine e fermare la causa alla base. Con Charlie aveva sempre cercato di capire il come e il dove, così da poter fermare i criminali sul momento, però ora era come se pensasse più ad ampio spettro. Come se pensasse più alle vittime, in un certo senso. Non bastava fermare i criminali, dovevano pagare nel modo giusto. E quel modo non era la morte.
Colby fece un cenno e indicando la porta dell’aula magna, si avvicinò con lui. Una volta lì, anche altri agenti arrivarono alla spicciolata, alcuni si sistemarono nella porta secondaria, guardarono tutti Don e Colby. Presero respiro poi con un cenno entrarono tutti.
Era ora di chiudere la partita.

Le voci gli arrivavano confuse. Ci mise un po’ a capire che non era un sogno strano.
Per un bel po’ gli era sembrato di essere tornato a scuola, stava rivivendo il periodo del liceo. Facile da credere, quello era stato il suo periodo più bello.
Era col suo Dylan. Erano solo amici, ma comunque sempre insieme. Lui sapeva già d’amarlo, ma Dylan era convinto che come fidanzati sarebbero andati malissimo. Quando era stato preso di mira per la sua omosessualità gli era venuto spontaneo dichiararsi gay anche lui. Aveva sfidato il mondo. Solo per lui, per proteggerlo. Ci era riuscito, ci era riuscito per molti anni. Il liceo era stata una prova superata a pieni voti. Era stato il dopo che non avevano superato. Come era possibile?
I corridoi del loro liceo scorrevano intorno a lui, alcuni sguardi straniti. Non passava mai inosservato.
E poi l’aula magna, il solito palcoscenico dove si ‘esibiva’ per tutta la scuola. L’assemblea studentesca si riuniva una volta al mese per discutere dei vari problemi della scuola e lui era il presidente e rispondeva a tutti convincendoli, conquistandoli. Aveva un bel ricordo dell’aula magna, era diventato popolare lì, coi suoi discorsi carismatici. E sapeva anche far divertire, sapeva fare le battute più brillanti, faceva dei siparietti simpaticissimi con chiunque era lì con lui.
Uno dei rappresentanti degli studenti più amati.
Come al solito la voce di suo cugino a richiamarlo perché era tardi per un qualche appuntamento.
- Un giorno o l’altro ti assumerò come mio segretario personale… - Diceva ridendo. Colton rideva a sua volta e rispondeva…
- Mi dovresti pagare troppo, non ti conviene! - Quella risposta gli arrivò troppo vicina per essere solo nella sua testa.
Tyler si aggrottò ed aprì finalmente gli occhi rendendosi conto che era vero e non un sogno. Aveva bofonchiato quella frase e Colton gli aveva risposto come in quelle volte, come in quei giorni felici dove lui da un lato e Dylan dall’altro l’aspettavano.
Si guardò intorno cercandolo, convinto quasi di vederlo. Forse i suoi trenta e passa anni erano stati un incubo ed in realtà era ancora fermo all’età del liceo, quando Dylan era ancor vivo, il suo migliore amico, la persona per cui un giorno avrebbe voluto dare la vita pur di saperlo vivo e felice.
Ma nessuna voce effemminata trillava allegro e squillante ‘hai finito di tirartela? Possiamo andare a mangiare? Sto morendo di fame!’ e lui non avrebbe mai risposto ‘Se tu morissi di fame sarebbe un evento, visto che sei uno scheletro che succhia cazzi!’
Fra di loro si prendevano in giro così. Dylan era provocante nel conciarsi, Tyler nell’essere. Si spalleggiavano così.
Ma Dylan non era lì.
Lì c’era solo Colton, i suoi occhi chiari, il suo viso curato e gradevole.
- Cosa… cosa succede? - Chiese impastato e con fatica, la testa gli doleva e gli girava, il mondo batteva incessante intorno a lui, ma solo in un secondo momento si rese conto che invece era tutto silenzio e vuoto.
Le sedie che si spiegavano in tante file su per le gradinate dell’aula magna. Tyler si aggrottò e si guardò intorno meglio, con una gran fatica ed il caos che gli faceva venire la nausea. Aveva freddo, cercò di stringersi nelle spalle ma non ci riuscì. Colton lo notò e gli liberò i polsi, così poté incrociare le braccia nel tipico segno del freddo. Il cugino si tolse la giacca e gliela mise sopra con una gran cura.
- Siamo a scuola? - Chiese poi capendo solo dopo che era su una sedia a rotelle. Si toccò il petto fasciato, i punti di sutura sul lato del torace, il dolore che si mescolava con la nausea e la stanchezza, ogni movimento lento e pesante. Si sentiva ubriaco.
- Ho bevuto? - Chiese poi realizzando che la sensazione era simile. Poi una risata li sovrastò, dietro di loro. Tyler si aggrottò girando la testa, si sentì girare da qualcun altro che poi si mostrò e fece dei passi indietro.
- Sei un po’ confuso, eh? - Tyler lo vide e faticò a mettere a fuoco il suo viso. Lo conosceva, ne era sicuro. Ma come lo conosceva? - È l’effetto della morfina, te l’ho sparata tutta in una volta. Pensavo dormissi di più, penso che il caro cuginetto sperasse in quello. Ora come farà? - disse come se Colton non fosse presente.
Tyler si voltò verso Colton senza capire, unico punto di riferimento per il momento. Perché non capiva come mai fosse nelle condizioni di adulto, ma nei luoghi di ragazzo. Cosa succedeva? Come era arrivato lì?
Colton sospirò e cercò di fare un’espressione tranquilla e sicura, mentre con una mano gli stringeva la spalla.
- Cosa ti ricordi, Tyler? - Chiese parlando calmo, ma fissando gelido Max seduto sul tavolo dei rappresentanti di istituto.
L’aula magna era un enorme imbuto alla fine della quale c’era una specie di piccolo palco. Al centro un tavolo che si poteva togliere per lasciare posto agli strumenti musicali e alle sedie degli orchestrali disposti sullo sfondo. Lì si eseguivano assemblee di istituto ma anche concerti e spettacoli di natale e fine anno.
- Io… - Tyler cercò di ricordare con scarsi risultati, una fitta alla testa. - L’ospedale… - Colton annuì.
- Perché ci sei finito? - Voleva anche mettere alla prova le presunte parole di Max che aveva detto di non aver rivelato nulla a Tyler.
- Perché mi hanno rapito e ferito. Quel… - E a quel punto ebbe il flash che gli ricordò cosa era successo e chi era quell’uomo seduto davanti a loro con un coltello in mano ed una pistola nella cintura. Aveva sostituito le armi perché i coltelli li preferiva di gran lunga. - quel bastardo! - Esclamò ringhiando a denti stretti.
- Cosa ti ha detto quando ti ha rapito? - Chiese Colton sempre calmo, senza staccare gli occhi da quelli di Max che sembrava divertito.
- Farneticava sulla storia della sua vita, sull’amore e sul fatto che io amo ancora Dylan e che non sono la storia di nessun altro. Ha detto che non voleva uccidermi ma doveva perché ormai sapevo troppo, mi sono ricordato che è lui che ha rovinato la vita a Dylan, lui me lo ha portato via! L’ho riconosciuto. Per questo doveva uccidermi! Però sono arrivati i federali e mi hanno salvato! -
- Salvato?! SALVATO?! - Cominciò Max isterico a quel punto cambiando il viso dal sorriso al furioso. - QUELLI ERANO LÌ PER UCCIDERMI, È STATO UN CASO CHE POI TI HANNO SALVATO! CERCAVANO ME, VOLEVANO FERMARE ME! HANNO TESO UNA TRAPPOLA A ME! TU SEI SOLO STATO FORTUNATO! - Era importante per lui, in un certo modo, anche se non era chiaro. Si portò davanti a loro e Colton si mise in mezzo automaticamente. Nella sua mente cercava disperatamente un modo per uscirne integro ed essere l’eroe di Tyler.
- Calmati, Carver. - Disse gelido, le mani alte davanti a sé per fermarlo.
- Carver? Lo conosci? - Chiese Tyler da dietro di loro, l’aria sconvolta, ma l’adrenalina piano piano l’aiutava a svegliarsi e capire meglio, stava riprendendo le forze.
- Certo che lo conosco. - Disse composto e sorpreso guardando di sbieco Tyler da davanti a lui. - Tu no? - Tyler non capiva, lo guardò sbattendo gli occhi.
- Io so che lui è l’ultimo ragazzo di Dylan con cui è sparito dieci anni fa ed è quello che l’ha ucciso… gli agenti mi hanno detto che gli ha strappato il cuore e l’ha tenuto come souvenir! - Disse quello che ricordava di proposito, per rimettersi in sesto anche a livello mentale.
- Tyler, ma che rappresentante degli studenti eri? -
- Già, Tyler, che rappresentante eri? Ricordi almeno uno degli studenti della scuola che rappresentavi? Uno al di là del tuo Dylan e di tuo cugino? - Tyler spostò lo sguardo su Max che si era fatto indietro scanzonato, tornato in sé. Colton si spostò a sua volta per permettere a Tyler di vederlo meglio. Strinse lo sguardo e scosse il capo.
- No. - Rispose schifosamente sincero. Colton alzò gli occhi al cielo esasperato come per dire ‘ma ci sei o ci fai? Menti se proprio devi, ma usa il cervello!’ Tyler notò il genere di sguardo e rispose seccato:  - Senti, sai quanti studenti ho rappresentato in tanti anni? Miliardi! Come faccio a ricordarli tutti? Seriamente! - La propria condizione di pericolo non gli permetteva di stare attento. Per nulla. Tyler rimaneva Tyler in ogni circostanza ed era per questo che tutti lo amavano tanto in un modo o nell’altro.
Colton sospirò mentre Max un po’ se la rideva scuotendo il capo. Colton gli indicò Max.
- È Max Carver, un nostro compagno al liceo. - Spiegò col tono da maestro e da ‘ma perché tutte a me’, che con lui usava sempre. Era un po’ il ruolo che si era fatto per potergli stare vicino.
Tyler lo guardò cercando di ricordare, ma proprio non gli veniva su.
- So che lui è quello che ha abbordato Dylan e che ho visto una volta che li ho seguiti in quella casa abbandonata. - Disse deciso.  - Ma di un Carver di scuola: zero. - Insistette senza pensare che a volte se uno ti sventolava un coltello in mano con l’aria da pazzo, dopo aver ucciso una ventina di persone, forse era meglio fingere di ricordarsi di lui.
Colton voleva dargli un pugno in testa, ma sospirando spiegò ancora.
- Era un nostro compagno. -
- Forse ti rinfresca la memoria questo… - E con questo Max intonò la canzoncina che gli studenti avevano inventato per denigrarlo, quel ritornello derivato dal gioco del lupo mangia frutta.
Quando lo fece, Tyler si ricordò e chiaramente i suoi occhi limpidi e cristallini mostrarono quel ricordo grazie a quello stimolo specifico.
- Certo! Il rosso! - Rispose deciso. Colton sospirò ancora.
Max parve non prendersela. Si mise a ridere e poi scosse il capo.
- Pensa se fossi stato senza dita già da quella volta… chissà che canzoncina avrebbero inventato quegli stronzi! - Si derise da solo.
- Beh, che ci facciamo tutti qua? Vuoi finire il lavoro? Cosa c’entra Colton? - Tyler cercava di capire bene la situazione nonostante avesse pensato che Max voleva rinunciare ad ucciderlo per qualche ragione che gli aveva più o meno spiegato l’agente Granger.
Però ora essere di nuovo lì e insieme a Colton lo stava confondendo.
A quel punto gli occhi di Colton divennero due lame di ghiaccio mentre quelle di Max si spalancavano con aria di chi si pregustava un gran divertimento. Era su quell’orlo. Sull’orlo di quel burrone. Dove un passo significava la perdita totale di controllo, ed un altro invece tornare in sé.
Colton lo guardò con attenzione per capire a che punto era. Purtroppo in dieci anni non l’aveva più incontrato. Si erano sempre e solo sentiti per telefono, aveva imparato a capire le sue condizioni dal tono della sua voce, ma di persone gli risultava imprevedibile. Era a disagio ma doveva controllarsi.
- Vedi, caro Tyler… - Cominciò Max calmo avvicinandosi a lui. - La verità è che io e lui abbiamo una questione in sospeso e se tu non ci fossi stato, lui non avrebbe mai fatto sul serio. Così ti chiedo scusa perché avevo deciso che alla fine non valeva la pena rovinare un’opera d’arte come te, non potevo migliorarti da come sei ora. - Tyler lo prese per un complimento originale anche se macabro e non rispose ‘grazie’. - Però ho bisogno di te perché altrimenti il caro Colton non mi avrebbe mai calcolato. Ed io voglio una sincerità e serietà mortali, questa volta, da lui. -
A Tyler mancava un pezzo e si capiva dal suo sguardo confuso, era come se sapesse che c’era qualcosa di grave da sapere. Lo sentiva.
- Ma di cosa diavolo parli? - Chiese con un tono basso.
Esattamente in quel momento, con la tensione che improvvisamente si era alzata tagliente, le porte dell’aula magna si aprirono dall’alto, sia quella di destra che quella di sinistra. E dai due usci comparvero una serie di agenti con divise e fucili imbracciati, scesero veloci e cominciarono a disporsi per le fila in modo da avere Max e Colton sotto mira da ogni angolazione.
Al centro del corridoio principale, proprio dritti rispetto a loro, a venirgli lentamente incontro, i due agenti a tutti e tre i ragazzi in basso già noti.
Don Eppes con una pistola ed una divisa dell’ospedale e Colby Granger con una mitraglietta.
Appena li vide, Max di riflesso girò Tyler verso di loro tenendoselo davanti, e gli puntò il coltello alla gola, come aveva fatto due giorni prima al rifugio nel bosco.