*Ecco un altro capitolo. Abbiamo lasciato la scena principale sul più bello, Tyler infine non regge al dolore del sapere che è stato il cugino a cui lui era legato, e gli spara. Come finirà? L'avrà ucciso? Tyler si sarà rovinato irrimediabilmente la vita? Una storia durata fin troppo finisce, il suo eco nel tempo si conclude nel presente ed è ora per Don e Colby di andare avanti e ritornare nella loro vita, nella loro storia, più viva che mai, pronta per essere vissuta finalmente. Buona lettura. Baci Akane*

41. STARE BENE O SENTIRSI MEGLIO



"Nel momento della resa Mi misi in ginocchio Non feci caso ai passanti E loro non notarono me Sono stato in ogni buco nero All'altare della stella scura Il mio corpo ora sta implorando Sebbene stia supplicando di tornare"
/Moment of surrander - U2/


Un istante per non sapere cosa pensare, cosa sperare.
Un istante per concludere una storia durata, in realtà, molto più di dieci anni. Una storia durata forse quindici, venti.
Improvvisamente essere lì e vedere una fine atroce. Eccola lì.
Don rimase immobile a qualche metro da Tyler con la pistola in mano e lo sguardo furioso, carico di odio e di lacrime cristallizzate che probabilmente non sarebbero mai andate via.
La sua bellezza, in quell’istante, era il dolore e la disperazione.
Don vide Colby allontanare Max ammanettato mentre rideva in reazione isterica, forse anche liberatoria. Felice di quell’epilogo, in qualche modo per lui era finita definitivamente, in ogni senso.
Vide poi Nikki prendere la pistola a Tyler, vide Tyler alzare le mani in segno di resa consapevole.
Vide un altro agente correre da Colton riverso a terra supino, la testa storta di lato.
Vide le mani sul suo addome riempirsi di sangue, vide l’agente togliersi la giacca per tamponare meglio la ferita e vide un altro inginocchiarsi sopra la testa, raddrizzargliela e toccargli il collo alla ricerca della giugulare.
Secondi interminabili. Secondi indimenticabili. Il fiato sospeso di Don che passava da loro a Tyler che fissava a sua volta gli agenti che soccorrevano suo cugino. Lo sguardo pieno di lacrime ferme, gli occhi vuoti. Troppo vuoti in paragone alla vita avuta prima.
- È ancora vivo, capo! - Disse quello che cercava il battito. - C’è battito. Debole ma c’è! - E così proseguirono con le norme di soccorso a controllare il respiro e continuare a tamponare la ferita.
Nikki chiamò un’ambulanza mentre doveva ammanettare Tyler, Don così si fece piano piano avanti, faticosamente. Si chinò e lo guardò negli occhi, cercando lo sguardo fisso in Colton che non si sapeva se sarebbe vissuto o meno.
- Tyler… - Lo chiamò piano. Tyler girò il capo e lo guardò assente, vuoto, perso. Don rabbrividì. A volte le chiusure non aiutavano ad andare avanti. A volte le chiusure facevano affondare definitivamente qualcuno che si era tenuto a stento a galla. - Tyler… - ripeté dolcemente mettendogli una mano sul ginocchio.  - Lo salveranno e tu uscirai subito per circostanze attenuanti. - Disse sperando che in qualche modo potesse aiutarlo. Tyler non aggrottò nemmeno la fronte, rimase impassibile, perso e vuoto.
- Non mi importa più niente. - Rispose. - Sapere che è stato Colton… mi ha ucciso del tutto… per colpa mia... io… io non… - Tyler non trovava le parole ed il tono che usava era del tutto monocorde, impercettibile.
- So che fa male. Ma devi vivere la vita che Dylan avrebbe voluto tu vivessi. Per lui. - Tyler allora sembrò reagire e finalmente lo sguardo si increspò, le lacrime aumentarono in quelle azzurrità trasparenti.
- Ma lui non c’è, non ci sarà mai più. La vita gli è stata strappata via come un animale… tutto quello che ho ora è il suo cuore, non ho nemmeno il suo corpo, una tomba su cui piangerlo. Non ho più niente. E non era lui che doveva morire, non era lui. Ero io, erano ossessionati da me, da me. Dylan è morto per colpa mia, come posso vivere io ora sapendolo? Prima non sapevo niente, era sparito, non sapevo perché, cosa gli era successo. Stavo male, ma non così… così ora io… è colpa mia, sono io che devo pagare, io dovevo morire, io, non lui. Come posso vivere sapendo che lui è morto per colpa mia? - Come se Don avesse in qualche modo tolto la diga da un fiume arginato per troppo tempo. Max ancora fermo lì, Colby attendeva qualcosa prima di farlo portare via.
Max li guardava e li ascoltava, non rideva più, rimaneva impressionato mentre intorno il caos di chi faceva qualcosa, arginava la scena del crimine, faceva entrare i paramedici, mandava via gente che cercava di vedere.
- Tyler, Tyler! - La mano destra, l’unica che poteva usare, si posò sulla sua guancia cercando di fermare quel fiume in piena che straripava. Allora Tyler smise di parlare e addossarsi le colpe pieno di quel dolore che sembrava non poter avere fine. - Non l’hai ucciso tu! L’hanno ucciso loro! Se loro non ci fossero stati, Dylan sarebbe vivo! Sono loro i colpevoli, loro i pazzi, loro che vi hanno fatto questo! Tu l’avresti reso felice per tutta la vita, non l’avresti mai ammazzato. Sono loro i colpevoli, loro. Non tu! - Tyler sembrò registrare le sue parole ed assimilarle. Rimase zitto per qualche secondo, poi scosse il capo ed alzò gli occhi al cielo.
- Come vivrò ora? Come vivrò da qui in poi? Il mio Dylan non tornerà più da me. Mai più. Come vivrò? -
- L’ho seppellito ad un chilometro ad est, nel bosco dove c’era il mio rifugio. L’ho ucciso lì e l’ho seppellito lì. Ho tenuto solo il suo cuore. Non gli ho fatto niente altro. Non… non sapevo come rendergli omaggio e scusarmi. L’ho solo ucciso e seppellito. - La voce di Max arrivò a placare in qualche modo il dolore straripante di Tyler che smise di parlare, lo guardò, realizzò che avrebbe potuto andare da lui, costruire una tomba e piangerlo ogni giorno ancora.
Piegò il capo in avanti facendo cadere le spalle stanco, sfinito, pieno di un dolore interiore ed esteriore infinito.
Don così fece un cenno ad un impressionato e sinceramente colpito Max che aveva confessato una cosa che nessun serial killer avrebbe mai confessato facilmente. Solitamente usavano i posti dei corpi seppelliti come merce di scambio per migliorare le proprie situazioni. Max lo rivelò immediatamente. Don lo ringraziò e indicò a Colby di farlo portare via. Poi abbracciò Tyler con un braccio prendendolo dolcemente fino a fargli appoggiare la fronte contro il suo petto.
Tyler pianse contro di lui, sentendo che avrebbe solo potuto piangere ancora e per sempre.
- Vedrai che un giorno lo sopporterai e capirai che per sentire Dylan più vicino, puoi solo vivere a pieno la tua vita. Perché è questo che faceva lui, è questo che avrebbe fatto lui. E facendolo, starai meglio. Un giorno lo capirai. Un giorno andrà meglio. - Ripeté dolcemente Don. Dopo un tempo quasi infinito, lo lasciò a Nikki affinché lo facesse portare in ospedale per finire le cure.
Vedendo andare via anche lui, dopo un Colton ancora miracolosamente vivo che molto probabilmente se la sarebbe cavata ed avrebbe dovuto giustamente convivere per sempre con l’odio infinito di Tyler nei suoi confronti, Don si sedette sfinito sul tavolone delle riunioni sul palco di quel grottesco spettacolo, con gli agenti che lavoravano intorno per i rilevamenti e per raccogliere prove che attestassero i fatti appena svolti. Ognuno faceva il proprio lavoro. Don chiuse il telefono che aveva registrato tutto, poi scuotendo il capo sospirò stanco, mentre l’adrenalina svaniva dal suo corpo lasciandogli la sensazione di essere passato sotto un tritacarne.
Il dolore al petto si confuse con il dispiacere empatico assorbito da Tyler.
Un’altra orribile storia era finita, giustizia era stata fatta, ma la verità era che non c’era mai modo per alleviare il dolore delle vittime. Perché la giustizia metteva un punto, ma non cancellava quel male interiore.
- Pensi che un giorno starà bene? - Chiese Colby fermo davanti a lui che lo guardava preoccupato. Don si strinse nelle spalle ed alzò gli occhi verso la porta da cui avevano portato via Tyler.
- Un giorno starà meglio. Ma mai bene. -
Colby sapeva la differenza fra il stare meglio ed il stare bene. Sospirò dispiaciuto per un epilogo che per quanto fosse il migliore immaginato, rimaneva amaro per il dolore mostrato da Tyler.
Essere in un modo o nell’altro la causa della morte della persona amata era la cosa peggiore al mondo, Colby provò ad immaginare di essere la colpa della morte di Don ed immaginò di dover vivere con questo pensiero.
- Non smetterà mai di sentirsi colpevole, lo sai? - Disse a Don prendendolo per il braccio sano. Don, sorprendentemente docile, si fece fare mentre lo aiutava ad uscire dall’aula magna, camminando molto piano. Quel contatto era caldo, la prima sensazione bella da molto tempo e forse in quello un po’ di amarezza iniziò ad andarsene.
- Spero che trovi la forza di andare avanti, che non la faccia finita, che reagisca. - Rispose pensieroso, mentre mettere un piede davanti all’altro cominciava a risultare problematico.
- È una persona molto forte, oltre che molto amata. Ha una gran forza di volontà e molta vita dentro. Si rialzerà, anche se in cuor suo niente gli toglierà dalla testa di essere lui la causa della morte di Dylan. - Secondo Colby le cose sarebbero andate così e superata la porta, imboccato uno dei corridoi scolastici, fra la gente che li guardava curiosi senza sapere bene ogni dettaglio di quanto accaduto, Don pensò che forse aveva ragione lui.
Forse si sarebbe sempre sentito responsabile, ma ce l’avrebbe fatta a risalire. Senza stare mai completamente bene, ma per lo meno riuscendo a sopportare.
Don poi guardò silenzioso avanti e vide che prima di arrivare alla macchina c’erano ancora troppi metri da fare. Stanco chiese una pausa in bagno. Colby, sorpreso, lo portò nel più vicino, Don si appoggiò ad un lavandino sedendovisi sopra per metà, il braccio con la benda rigida dopo l’operazione era contro il petto perché così il sangue batteva meno facendogli meno male. Indicò a Colby di controllare se era vuoto e Colby lo fece. Poi tornò da lui e gli toccò la fronte per sentire se aveva febbre, aveva un colorito terribile. Don si lasciò fare docile, il respiro tornò normale.
- Hai la febbre. Credo sia meglio tornare in ospedale anche per te. - Disse dolcemente, mentre gli controllava anche la ferita alla fronte, coperta con una piccola garza di medicazione.
Don rimase zitto a farsi fare, poi piegò la testa di lato e rischiarò finalmente il suo sguardo rimasto cupo e stanco fino a quel momento.
Con la mano sana gli toccò il mento, lo fermò e si protese verso di lui. Infine lo baciò delicatamente, cercando proprio quella dolcezza che gli era mancata, una sorta di cura per poter andare avanti, per recuperare un po’ di forze.
Per ricordarsi come si poteva ancora stare meglio dopo una giornata del genere, dopo un caso così. Dopo una storia chiusa in modo comunque amaro. Amaro per la conseguenza sulle vite di quasi venti innocenti.
Le loro labbra si trovarono, il calore partì da lì e per un momento la febbre si abbassò. Per un momento Don tornò a stare bene, ricordandosi come si faceva a fare quel lavoro orribile per tanto tempo senza smettere dopo il primo caso atroce.
Spostò la mano dal mento alla sua vita, strinse la presa quasi con disperazione, infine l’attirò a sé fra le proprie gambe che strinse intorno alle sue. Colby lo prese per la vita e continuò a baciarlo mentre si sentiva in colpa perché ora tutto quello che poteva sentire era solo la gioia di averlo ancora lì e di averlo in quel modo.
Per lui la storia era finita bene, per lui la storia era finita splendidamente.
Alla vita non poteva più chiedere nulla. Adesso sentiva di poter e di voler ricominciare. Era ora di essere felici. Ora si poteva.