LA MISURA DEL DOLORE

Astrid Basso

la misura del tempo

I.  SOLE NASCOSTO

Succede quando tutto nella tua vita finalmente va bene.
Dopo che hai passato gran parte di essa a cercare un senso, il tuo posto nel mondo, dopo che hai trovato la persona giusta e il destino finalmente sembra abbia smesso di darti dure prove.
Ebbene allora arriva il momento peggiore.
Non pensavi potesse succedere ancora qualcosa di brutto, eri convinto che le sfortune e le sofferenze fossero finite, eppure ti ritrovi catapultato contro le tue stesse certezze e ti ricredi. Non vorresti ma non hai scelta. 
Il mondo che crolla non puoi ignorarlo. 
Lo sta facendo davanti ai tuoi occhi, sorridendo dolcemente triste, ma pieno di amore, col sole tenue autunnale che si nasconde dietro alle nubi scure. 
Pioverà mentre tutto ti crollerà addosso. 
Pioverà mentre tu piangerai. 

Reina lo vide buttarsi giù dalla scarpata troppo alta per essere considerata un salto da poco e quando credette di urlare, si rese conto che dalla sua gola non usciva un solo suono e si accorse che non era un sogno. Non lo era poiché non riusciva a gridare a causa del nodo che gli legava dolorosamente le corde vocali. 
Sperare non era da lei, eppure lo fece.
“Svegliati, dannazione… non puoi viverlo davvero… non può essere vero… non può… Marek non può essersi buttato!”
Se lo ripeté come una litania disperata, ma nemmeno le lacrime le scendevano mentre le nuvole continuavano ad avanzare tenendo ancora nascosto il sole, quel sole che fino ad un attimo prima era stato lì sopra di loro a riscaldarli per quanto possibile, visto la temperatura che andava via via sempre più abbassandosi. 
Come erano arrivati, lì? 
Alzò gli occhi al cielo mentre veniva trattenuta per impedirle di buttarsi giù a sua volta. Li alzò e non cercò un Dio in cui razionalmente non credeva, ma che comunque conosceva alla perfezione. Li alzò per cercare il sole che continuava a nascondersi per non rispondere alla sua domanda. 
“Perché mi hai portato via Marek?”
Forse in quel momento il sole e Dio, per lei, furono sinonimi. 
Perse coscienza del suo corpo e dopo aver considerato alla velocità della luce tutte le motivazioni per cui non avrebbe mai e poi mai potuto salvarsi da quell’altezza vertiginosa, capì che nemmeno lei voleva sopravvivere senza il suo mondo. 
Infine gridò il suo nome come invocasse la propria stessa morte.
Gridò in maniera straziante dalle viscere, strappandosi l’anima, mentre calde lacrime rigavano il viso. 
Affacciarsi al fosso le permise solo di constatare che alla fine di quel burrone scosceso, c’erano delle rapide ed un fiume che correva troppo forte, portando qualunque corpo troppo lontano da lì in un attimo. 
Solo lontanamente sentì le mani di questi estranei che avevano costretto Marek a buttarsi e si accorse che stava tentando di fare la stessa cosa. 
Come potevano chiederle di non farlo?
Non si poteva sopravvivere. 

***

Il giorno in cui quegli uomini arrivarono erano insieme. 
Era il 17 Novembre e Reina non se lo sarebbe mai dimenticato. 
Marek la stava indottrinando circa la musica e le stava facendo ascoltare quella che secondo lui aveva il significato più bello che avesse mai sentito. 
Una canzone rock che parlava di avere fede nonostante le dure prove della vita. Lei naturalmente non la conosceva e non poteva nemmeno dire di apprezzare molto la melodia od il genere troppo caotico per i suoi gusti, però aveva ascoltato il testo e le era rimasto impresso poiché era denso di un bel significato, anche se poi c’era Dio di mezzo. 
Diceva di dover credere nonostante tutto quello che succede, per quanto brutto sia quello che ci circonda, per quanto rischiamo di diventare ciechi perché non vediamo più un motivo per andare avanti, bisogna continuare a credere sempre perché la vita non si ferma mai. 
Era un bel messaggio, ma quel che le era piaciuto maggiormente era la spiegazione di Marek con il suo solito fervore pieno di convinzione: 
- Ci sono le guerre nel mondo e quelle non le vinci, anche se sulla carta ce la fai, di fatto le guerre non le vinci. E poi ti perdi, perché vivendo in questo mondo è facile perderti. Finire su una brutta strada, fare cazzate, ferire gli altri, fare del male. Per di più la gente è sempre più sola, le relazioni finiscono, gli amici ti tradiscono, le famiglie ti voltano le spalle e pensi che invece di qualcuno da amare, ti serve qualcuno da odiare, perché ti permette di andare più avanti. Eppure è lì, è lì che bisogna continuare ad avere fede. La fede che ti permette di non trasformare l’amore in odio, il bene in male. E’ quando le cose vanno male che bisogna tenere duro e mantenere la fede. La fede nella vita, nelle cose belle, in Dio. Ma sai, anche se dici che va tutto bene anche quando stai male, questo non toglie la tua sofferenza. Magari è orgoglio, ma non è utile. I tempi sono duri, tutti stanno male per mille motivi diversi ed è difficile essere forti quando non c’è più nessuno che ti dia pace. Ma è lì che devi mantenere la tua fede. E’ più facile essere ciechi e non vedere il marcio che c’è intorno, facendo finta che vada tutto bene. Ma il male c’è, non è giusto fingere che non ci sia e diventare indifferenti e poi magari ti nascondi per piangere, perché comunque stai male lo stesso. Il male che facciamo non lo cancelliamo, rimane tutto, però non dobbiamo trasformare l’amore in odio. Quando va tutto male bisogna mantenere la fede. Proprio in quel momento. - 
Gli avrebbe chiesto di ripetergli tutta la spiegazione e non perché non aveva già perfettamente memorizzato ogni singola parola, ma perché nella sua mente non sapeva riprodurre perfettamente l’amore e la convinzione con cui lo diceva, la fede che esprimeva. 
Lui viveva senza smettere mai di credere in ciò che faceva e non aveva paura di mostrare i suoi sentimenti sempre forti, brucianti, potenti. 
Ascoltandolo, insieme alla melodia che cercava di trasmettere la medesima forza alle parole, si chiese se lei sarebbe mai stata capace di credere in quel modo.
Marek ne era capace e da quando stavano insieme, anche se non credeva in Dio, era sempre stata indifferente e chiusa al mondo e non era ottimista di natura, si sentiva più positiva ed in pace. Forse questo significava qualcosa. Marek le aveva tirato fuori l’amore da dentro, il suo sole nascosto, e le aveva dato la vita. 
Adesso lei amava e l’idea che questo sentimento diventasse odio era assurdo, impossibile. Lo amava troppo.  
Dunque poteva considerarsi una di fede, adesso? 
Prima che potesse rispondere a quella domanda, quegli uomini erano arrivati e tutto era accaduto più velocemente che mai. 
Il tempo di guardarsi, poi, non c’era stato. 
Un furgone si fermò, uomini sconosciuti scesero in silenzio senza una sola parola, Marek venne colpito brutalmente e improvvisamente, cadde a terra svenuto e poi lei si sentì portare via. 
Lo chiamò a gran voce ma sapeva che non poteva più sentirlo perché erano stati ormai separati, lei era in quel furgone e Marek era da solo, fuori, in strada. 
Come poteva essere successo a loro? 
Quella fu l’unica domanda che sarebbe rimasta persistente da lì in poi, per sempre. 

Quando si rivide il suo viso davanti, capì che doveva essere impazzito per ritrovarlo e che non si era arreso davanti a nulla, proprio come gli aveva detto prima di essere separato da lei. 
Capì anche che però non se la sarebbe cavata troppo bene, era stato picchiato e conoscendo il suo compagno dubitava che avesse seguito l’ordine di Andrew, il capo della sua unità di polizia, di non fare di testa sua per non cacciarsi anche lui nei guai.
Gli era bastato guardarlo, lo conosceva, non servivano parole. 
Aveva fatto l’impossibile e l’aveva trovata. 
Un magone le salì nonostante razionalmente sapesse che ora erano in un mare di guai insieme, visto che tenevano legati entrambi con delle pistole puntate alla testa. 
- Non vogliamo te, ti avevamo dato la possibilità di vivere e farti gli affari tuoi… ma per fare lo stupido eroe, ora troverai la fine dei tuoi giorni! - Glielo dissero con una certa fantasia, Reina ci aveva impiegato un istante a tradurre quella frase, mentre Marek altrettanto a rispondere a tono, con disprezzo: 
- Non me ne frega niente di vivere se lei è nelle vostre luride mani! - Una frase che forse non aveva nemmeno pensato prima di ringhiare, ma che ebbe anche la capacità di far sentire meglio Reina, impossibilitata ad emettere un solo suono. 
Gli sconosciuti risero sprezzanti, quindi spingendoli vicino, sbraitarono: 
- E allora ti accontento! Vediamo se lei può vivere senza di te! - 
Nel realizzare il senso anche di questa frase, la donna dai capelli biondi tutti scompigliati intorno al viso terrorizzato, si paralizzò di nuovo guardando angosciata il suo compagno accanto che la ricambiava dopo aver capito che a quegli uomini interessava solo lei. Non era difficile immaginare il motivo. 
Reina era una collaboratrice della sua unità speciale dove Marek lavorava come poliziotto con Andrew ed altri colleghi. Lei era stata assunta perché era una delle menti più brillanti dell’ultimo secolo. Era una matematica che aveva elaborato molte teorie utili per qualsiasi campo, queste avevano aiutato in molte indagini fino a che non avevano deciso di ingaggiare la proprietaria di tali teorie per i casi più difficili. Ben presto la notizia della sua collaborazione con le forze dell’ordine aveva fatto il giro del Paese e coi successi ottenuti, Reina era diventata ancora più popolare.
Collaborando con loro, lei e Marek si erano innamorati.
I due si scambiarono uno sguardo carico di significato e trattennero il fiato per un momento.
La sensazione pressante che li investì mentre i loro occhi si incatenavano, fu che quella sarebbe anche potuta essere l’ultima volta. 
- A noi interessa solo il genio, non ce ne frega niente di te e non so come ci hai trovato, ma faremo in modo che tu non possa farlo una seconda volta! - 
Dopo avevano avuto un istante per stare soli, anche se legati ed impossibilitati a toccarsi. 
L’urgenza nei volti che si scrutavano imprimendosi a fondo ogni dettaglio. 
- Andrà tutto bene! - Disse allora Marek con la sua solita certezza di poter risolvere tutto. Reina non poté fare a meno di chiedersi come fosse possibile, sapeva molto bene che nella situazione in cui erano non potevano cavarsela, ma l’altro non la fece parlare, capendo subito a cosa pensava con quell’espressione sconsolata. Gli ricordò la Reina dei primi periodi nell’unità. Cupa, pessimista, fredda. Adesso era un po’ cambiata e lui aveva faticato molto per aiutarla ad aprirsi e fidarsi. - Va bene, ho scavalcato Andrew, ma sicuramente ci stanno per trovare… vedrai che fra poco tutto questo sarà finito! - Però riusciva sempre a dire parole di conforto persino in situazioni pessime. Era una dote che Reina gli aveva sempre invidiato. Se lei sapeva che le cose erano messe male, non sapeva mentire alla vittima per farla stare bene. Era sempre schifosamente sincera. Troppo. Eppure faceva parte della sua bellezza.
- Hanno detto che hanno bisogno delle mie capacità inumane e quando gli ho detto di cosa parlavano mi hanno sciorinato tutti i casi che ho aiutato a risolvere, le lauree che ho e le teorie che ho creato. Hanno detto che come aiuto a risolvere i casi per la polizia, ora aiuterò loro a fare questo colpo di cui non so ancora nulla. - Spiegò la situazione per distrarsi e cercare la sua razionalità che magari sarebbe stata più utile. Aveva bisogno di credere in Marek prima di tutto. Se lui era lì non poteva deluderlo e perdere tempo in pessimismi cosmici inutili. 
- Sei la donna che tutti cercano, dovevamo aspettarci che esponendoti in questo modo in favore della giustizia, le cose prima o poi sarebbero andate così… - Rispose cercando di non mostrarsi preoccupato com’era realmente.
- Che tutti cercano? - Chiese lei senza capire se fosse ironia e cosa intendesse. 
Marek ridacchiò e si sentì strano a riuscirci lo stesso, ma per lei valeva sempre la pena. 
- Tutti vorrebbero una Reina… - 
- Lo dici come se fossi un animale domestico! - Si lamentò non apprezzando l’immagine che stava dando di sé, l’altro continuò divertito anche se ridere gli faceva male allo stomaco tumefatto. 
- Il migliore che abbia mai avuto! - La vide fare il broncio consapevole che essere paragonata ad un animale domestico per una che aveva mille lauree, non dovesse essere il massimo. 
Fu quello l’ultimo momento in cui le loro espressioni furono distese mentre comunicavano quasi con tranquillità, poi come se avessero sentito un campanello che imponeva una scadenza urgente, Marek divenne di nuovo serio e cercando di avvicinarsi il più possibile, disse fissandola negli occhi con intensità: 
- Ascolta, piccola… devi promettermi che ce la farai qualunque cosa succeda fra poco. - 
Reina corrugò la fronte e rifiutandosi di capire ciò che invece era evidente, si oppose: 
- Hai detto che Andrew ci troverà subito… - Marek la interruppe con autorità: 
- Lo so cosa ho detto, ma se non dovesse farcela in tempo… - 
- In tempo per cosa? - Replicò testardamente la ragazza combattendo fra la paura e il rifiuto. 
- Lo sai… - 
- No, non voglio saperlo! - Combattendo ancora per non ammettere l’evidenza. 
- Reina, Andrew arriverà a te, ma forse non a me. Se non ce la facesse in tempo e dovessero uccidermi, voglio che tu invece ce la faccia. - Il silenzio dell’altra lo addolcì e sorridendo fiducioso ed incoraggiante, non riuscì a scacciare la tristezza dai suoi occhi. Tristezza per la consapevolezza di aver ragione. - Io non ce l’avrei fatta senza di te, ma voglio che invece tu ci riesca. Voglio che tu vada avanti. - E mentre lui diceva questo, Reina cominciò a terrorizzarsi scuotendo la testa come una forsennata, un animaletto piccolo piccolo spaventato a morte che voleva negare la realtà e rifiutare la sua intelligenza troppo spiccata persino in un momento simile.
Intelligenza che le diceva che era vero, che Marek aveva ragione. Che avrebbe potuto non farcela veramente. 
- Reina. Devi promettere che sopravvivrai, che non ti arrenderai qualunque cosa accada, a qualunque costo. -
Silenzio.
Terrore.
Rifiuto.
- Promettimelo! Non devi mai smettere di credere. Va sempre avanti. - 
Autorità. 
Forza. 
Fede. 
- Va… va bene… - Però non voleva prometterlo seriamente. Non voleva pensare di aver davvero bisogno di dover andare avanti senza il suo l’uomo che l’aveva salvata da sé stessa e riportata alla vita. 
Non voleva crederci anche se glielo stava promettendo.
Quel momento non se lo sarebbe mai dimenticato, le sarebbe rimasto impresso a fuoco indelebilmente, torturandola ogni giorno della sua vita. 
Crudelmente. 

Quando scesero dal furgone dopo essere stati portati lontano dal posto in cui erano stati tenuti inizialmente, si accorsero di essere fuori città, in un altura in mezzo alla boscaglia alla quale si arrivava con un sentiero che li aveva fatti dondolare molto. Era autunno e lo spettacolo di foglie dal caldo colore che scendevano aiutate dal vento fresco, era suggestivo. Pioggia di rossi, gialli, arancioni e marroni, una meraviglia da togliere il fiato. Il sole tenue cercava di fare il suo dovere, ma le nuvole all’orizzonte continuavano ad avanzare impietose e veloci. Nuvole cariche di pioggia. 
Vedendo il dirupo scosceso e sentendo l’acqua scorrere sotto fra le rapide degli scogli, alla fine di un’altezza spaventosa, si resero conto di ciò che sarebbe successo e capirono che le previsioni di Marek erano state buone. 
- Avanti. - Lo spinsero separandoli. Reina cominciò a tremare sia per il vento fresco che per la situazione, tentò di seguirlo, ma non glielo permisero, trattenendola, quindi lo guardò posizionarsi ai limiti del precipizio roccioso. C’era un bel panorama da lì sopra. Non era difficile credere che la gente si soffermasse lì per ammirarlo e che poi, magari, cadesse giù accidentalmente. 
“Lo faranno sembrare un incidente…”
E ne ebbero la conferma quando lo slegarono. Sapevano che i segni delle corde sarebbero rimaste, ma contavano anche sul fatto che sfracellandosi nelle rocce sottostanti e venendo trascinato via dall’acqua, certi segni si confondessero e che comunque rimanesse poco di lui. 
Tutto calcolato.
Non erano criminali qualunque, a partire dal fatto che volevano Reina per realizzare chissà quale sporco piano. Era gente importante e non potevano rischiare di venir identificati in nessun modo, nemmeno con un cadavere con delle pallottole in corpo. 
Di certo non erano sprovveduti. Se lo fossero stati, quando avevano preso Reina non si sarebbero limitati a stordire lui, come invece avevano fatto. Il non ucciderlo subito indicava che non potevano rischiare di farsi troppi cadaveri alle spalle. E forse non avrebbero voluto farsene nemmeno uno, per sicurezza. 
Ecco perché ci tenevano tanto che quello risultasse un incidente e che comunque non ci fosse modo per risalire a loro. 
E poi di Reina che ne avrebbero fatto? 
Le nuvole dell’orizzonte giunsero ad oscurare il cielo ed il sole. 
Niente parole se non queste: 
- Ricorda, piccola. Non sono pentito di niente. - 
Infine quello sguardo carico di certezze e di sentimento, non paura bensì tristezza. Tristezza per non potergli stare vicino ancora. Però non paura e nemmeno rimpianto. 
Così, guardandola fissa negli occhi, semplicemente si buttò. 

2. RINTOCCHI

Centottanta i rintocchi totali dell’orologio a pendolo in un giorno intero, comprendendo anche quelli delle mezze ore. 
Centotrentunmilaquattrocento i rintocchi totali dell’orologio a pendolo in due anni. 
Reina non aveva proprio passato tutto quel tempo davanti all’ingranaggio ad ascoltarli e contarli, ma quasi, e quando se ne era persa qualcuno, aveva calcolato ugualmente quanti ne erano scoccati in sua assenza. 
Perdersi lo scorrere ritmato del tempo per lei equivaleva a perdere la connessione dei propri sentimenti. 
Conoscere perfettamente quanto passava di preciso fra lei e la separazione da Marek era ormai tutto quello che le era rimasto dell’uomo che aveva amato e che comunque, rintocco dopo rintocco, era certa non avrebbe mai smesso di amare. 
Contarli cercando di sentirli quanti più poteva era come rimanere consacrata a lui e non aveva altro per dimostrare ciò che provava, forse un giorno si sarebbe aggiunta la gratitudine poiché col suo sacrificio le aveva permesso di vivere. 
Erano passati esattamente due anni da quel giorno.
Un giorno marchiato indelebilmente nella sua mente precisa dalla quale mai nulla, nemmeno miliardi di rintocchi, avrebbero potuto cancellare quanto aveva visto e vissuto in prima persona. 
Due anni.
Due anni che Marek se ne era andato. 
Due. 
E lei non aveva mai smesso di contare i rintocchi del suo orologio a pendolo e calcolare quanto tempo la stesse separando dal suo compagno. 
Sicuramente non avrebbe mai cessato di farlo. 

***

Reina non era stata salvata da Andrew e gli altri. 
Reina era stata scaricata poco dopo la morte di Marek, del resto l’avevano voluta per la sua mente geniale… nel momento in cui non era stata più tale, l’interesse nutrito nei suoi confronti era svanito e sicuri che ormai quella giovane catatonica completamente svanita e ammutolita fosse semplicemente impazzita, si erano maledetti per aver sottovalutato il legame di quei due e l’avevano abbandonata nel bosco. Certi che si sarebbe uccisa da sola senza dover simulare nulla per non sporcarsi le mani. 
Era stata trovato poco dopo mentre vagava fra gli alberi imboccando sentieri a casaccio, senza nemmeno rendersene conto. 
Era stata curata e avevano tentato di aiutarla senza successo, dopo aver detto confusamente ciò che era avvenuto era tornata nel suo preoccupante silenzio, perciò condotta a casa nella speranza che dopo un po’ di riposo sarebbe stata pronta per aiutarli a prendere i colpevoli di tutto quello. 
Avevano cercato il corpo di Marek ai piedi della scarpata ripida che terminava in un fiume dalla forte corrente. 
Sarebbe stata capace di calcolare la percentuale di sopravvivenza per uno che si buttava da quell’altezza in un luogo simile ed anche il posto preciso in cui il corpo sarebbe potuto finire, ma Reina dopo essersi spenta non si era più riaccesa, spinta anche dalla notizia che non l’avevano trovato.
I primi giorni li aveva passati a rifiutarsi di credere che Marek fosse morto. 
Non era possibile, non era stato trovato, non aveva visto il suo corpo contuso ricoperto dalle ferite che una caduta simile avrebbe dovuto procurargli. Non aveva constatato fisicamente che era morto, ergo per lei non lo era.
Aveva iniziato a contare i rintocchi per vedere quanto ci avrebbe messo a tornare e nonostante si sforzasse di riaccendersi per essere utile alla squadra e aiutarli nelle ricerche, non ci riusciva, era come se fosse più forte di lei.
Non era come se la sua mente si fosse spenta e non funzionasse più, in lei tutti i dati necessari arrivavano a fiumi, ma non riusciva ad esprimerli, a comunicarli, metterli in ordine e a leggerli.
Riusciva solo a calcolare i suoni del pendolo che non la deludevano e ora dopo ora, mezz’ora dopo mezz’ora, riempivano l’aria del suo salotto. 
Quantificare quanto tempo li separasse era tutto ciò che sembrava funzionare in lei. 
Dopo un po’, semplicemente, aveva anche smesso di lottare per riprendere il possesso della propria mente. 
In fondo era stato il proprio genio ad uccidere Marek. Se non avesse avuto un Q.I. così famoso, non sarebbe stata presa di mira da nessun pazzo criminale e il suo ragazzo non sarebbe morto in quel modo.
Quando aveva realizzato a sé stessa quel concetto, si era anche resa conto che non credeva più al fatto che in un modo inspiegabile potesse essere vivo, anche se dentro di sé da qualche parte sapeva che poteva esserci una possibilità e conosceva anche il modo in cui eventualmente ce l’avrebbe potuta fare. Però non riusciva proprio ad analizzarla. 
Lentamente i suoi ingranaggi si erano fermati. Arrugginiti. Bloccati. Incagliati. 
Al contrario di quelli dell’orologio che invece funzionavano alla perfezione.
Ogni lunedì lo caricava con la chiavetta metallica. Ad ogni cambio ora sistemava manualmente le lancette e toglieva la polvere che si formava ogni due giorni.
Per il resto stava lì a fissarlo come fosse tutto ciò che le era rimasto.
Quel regalo della madre di molti anni prima, un oggetto che aveva sempre infastidito Marek per quei ‘Don’ ridondanti allo scoccare di tutte le ore e le mezze ore. 
Stabili, regolari, costanti.
Si poteva sempre contare sul fatto che suonassero.
Il quadrante coi numeri romani, la quarta ora con quattro lineette invece che una I ed una V vicine, il pendolo in ottone che oscillava con la sua calma placida, la cassa elaborata in legno di mogano e vetro sottile, la posizione assolutamente dritta per non farlo fermare. 
Prima ora, l’una di notte. 
‘Don’.
Solitudine.
Buio tutto intorno. 
Il letto matrimoniale abitato solo da una persona. 
La porta sempre aperta, ma mai varcata. 
Prima mezz’ora, una e mezza.
‘Don’.
Nessun cambiamento.
Seconda ora, le due di notte. 
‘Don-Don’.
Solitudine. 
Buio tutto intorno. 
Il letto matrimoniale abitato solo da una persona. 
La porta sempre aperta, ma mai varcata. 
Seconda mezz’ora, due e mezza.
‘Don’.
Nessun cambiamento.
Terza ora, le tre di notte.
‘Don-Don-Don’.
Solitudine. 
Buio tutto intorno. 
Il letto matrimoniale abitato solo da una persona. 
La porta sempre aperta, ma mai varcata. 
Terza mezz’ora, tre e mezza.
‘Don‘.
Nessun cambiamento.
E poi il giorno fino a raggiungere le ore dodici, mezzogiorno, dodici rintocchi.
Ancora solitudine e silenzio.
La luce del sole ad illuminare la casa. 
La porta costantemente chiusa anche se non a chiave. 
Dodicesima mezz’ora. 
Un solo rintocco. 
Nessun cambiamento. 
Tredicesima ora, le tredici del pomeriggio. 
‘Don’.
Ancora solitudine e silenzio.
La luce del sole ad illuminare la casa. 
La porta costantemente chiusa anche se non a chiave. 
Tredicesima mezz’ora.
Sempre un unico rintocco.
Tutto dannatamente uguale.
E così la quattordicesima ora, la quindicesima, la sedicesima… fino alla ventiquattresima coi suoi dodici rintocchi a riempire la casa silenziosa e vuota. 
Tutta la sua compagnia erano quei suoni inevitabili che ricorrevano costanti senza mai deluderla e abbandonarla.
Marek era stato così, poi l’aveva abbandonata, non era più tornato, non c’era più stato.
Lei prima l’aveva aspettato, poi aveva semplicemente visto il tempo scorrere allontanandola sempre più da lui.
Il giorno seguente la stessa cosa.
Quello dopo ancora uguale.
Quello successivo.
Spento.
Aggrappata a quei rintocchi, unica connessione col mondo che proseguiva nel suo corso, rintocchi che le consentivano di stare ferma, sospesa in un nulla.
Il non fare niente anche se il tempo proseguiva, e lei si accertava che fosse così contando i ‘Don’, era come un fermare sé stessa mentre gli altri andavano avanti.
Le era assurdamente di conforto, non sapeva come.
Dopo i primi giorni di assenza totale, erano venuti in maniera ossessiva i suoi compagni di squadra, una volta al giorno a turno andavano ad assicurarsi che fosse viva, la obbligavano a mangiare e lei priva di interesse li accontentava senza smettere di ascoltare le ore del pendolo. 
Si occupavano di lei e come fosse una bambina regredita li lasciava fare, assecondandoli. 
La sua mente analitica ed estremamente intelligente non era stata mai capace di darle la risposta a quella domanda.
Perché Marek? 
Senza trovarla non si sarebbe rimessa in movimento.
Eppure a sue spese stava scoprendo che contrariamente a quanto aveva sempre creduto, non c’erano risposte a tutto. 
Semplicemente non c’erano, anche se certe domande avevano un bisogno assoluto di essere risolte per permettere al suo enigmista di andare avanti. 
Per Reina era importante, lei era sempre funzionata così. C’erano state volte in cui non era riuscita a trovare qualche risposta, raramente, ma aveva cercato una soluzione alternativa accettabile. Non le era mai importato se fosse positiva o negativa, per lei contava sapere. Si era corazzata dal dolore della vita con il suo sapere, la sua stessa mente intelligente la proteggeva dalla propria fragilità. Poi era arrivato Marek a proteggerla. L’aveva aperta alla vita che aveva rifiutato di vivere, gliene aveva data una, le aveva dimostrato che i sentimenti erano belli e l’aveva protetta dal dolore. Era diventato lui la sua forza, in contrasto col suo sapere, con la sua mente che spesso era stata la sua nemica per tutte le cose che le faceva conoscere.
Ora però lui non c’era a proteggerla, ma lei non sapeva più nulla. 
Non riusciva più a sapere. 
Non riusciva più ad andare avanti e contando il tempo il proprio si fermava, quindi preferiva rimanere così. Bloccata. 
A lavoro le avevano dato tutte le ferie possibili, la malattia e l’aspettativa, dopo avevano dovuto congelare il suo contratto trovando un modo per permetterle di tornare se un giorno avesse voluto. 
Non l’avevano sostituita.
Marek sì, anche se non era certo stato facile. 
Ogni giorno avevano continuato ad andare da lei cercando di scuoterla invano, sperando di trovare una risposta accettabile. Utopia. Non c’era una che potesse essere abbastanza valida.
Una diverso da lei avrebbe reagito in un altro modo, piangendo ogni giorno, arrabbiandosi col mondo, sfogandosi in ogni modo possibile. Lei non sapeva farlo. Lei aveva solo un Q.I. sopra la media e sapeva troppo ed ora si era arrugginito tutto. 
Avrebbe mai ripreso a muoversi?

Un anno dopo, semplicemente aveva cambiato lavoro.
I sessantacinquemilasettecento rintocchi contati erano stati sufficienti per farle capire che anche il suo tempo doveva riprendere anche se il sapere ormai l’aveva abbandonata.
Essendo che non riusciva più ad ottenere le risposte importanti non si era più fatta domande ed aveva deciso di cambiare radicalmente, incapace di fare ciò che faceva prima.
Incapace anche di farlo senza la persona che amava. 
Alla ricerca di una vita che non le parlasse di Marek, anche se dormiva sul letto in cui avevano fatto sempre l’amore, ascoltava l’orologio a pendolo che lui detestava e continuava a quantificare il tempo che trascorreva dalla sua scomparsa. 
Un lavoro normale, una ragazza sciupata e silenziosa, cupa, mai sorridente, di poche parole, senza risposte a qualsiasi tipo di domanda, anche la più semplice, incapace di fare un solo calcolo semplicissimo o di leggere un libro in poco tempo. 
Lontana dalla sua vita di prima, lontana da ciò che era stata e diventata dopo aver conosciuto Marek. 
Lontana da tutti. 
Viva per forza d’inerzia.
Per curiosità.
Curiosità di vedere come, oltre a contare il tempo, si poteva vivere senza chi aveva significato tutto per te in quei pochi anni di unione. 
Quella canzone non l’aveva più ascoltata.

***

Attorcigliò il manico che stringeva nelle sue mani premendolo sul grande secchio in plastica rosso, vide le morse chiudersi sul moccio appena bagnato nell’acqua e detersivo e quando fu abbastanza strizzato mollò tirandolo su. Dopo di che si girò e tornando al punto in cui si era interrotta, riprese a passare il pavimento pieno di impronte dell’edificio, era l’ultima cosa che le rimaneva da pulire del piano di sua competenza, dopo avrebbe finito. 
Con il volto immerso in nulla di specifico se non quello che stava già facendo, terminò l’angolo del corridoio quindi tornò a sciacquare il moccio e a strizzarlo, lo agganciò al carrello quasi più grande di lei, prese il secchio con l’acqua ormai nera che non profumava proprio per niente di detersivo e avviata al bagno lì accanto, già rigorosamente lucidato anch’esso, lo svuotò nel sanitario facendo un’attenzione maniacale a non gocciolare in giro. Ritirandosi controllò che il pavimento fosse ancora splendente e che non avesse lasciato tracce, quindi constatando che era tutto a posto, chiuse la luce e la porta, dopo di ciò spinse il carrello per le pulizie nel ripostiglio, si tolse la divisa che doveva indossare per igiene durante il lavoro e indossando la sua giacca uscì dallo stanzino pieno d’odore stantio e detersivi fastidiosi.
Immersa nelle strade serali della città sprofondò le mani nelle tasche con noncuranza, quindi si lasciò schiaffeggiare dall’aria fresca autunnale che le scostò appena i capelli biondi trascurati che le incorniciavano il viso magro e pallido. 
Alzò gli occhi cerchiati da occhiaie scure per il solito poco sonno e quando trovò l’enorme orologio alla fine della strada, lesse l’ora sentendo i rintocchi delle ore venti. Otto rintocchi. 
Anche il suo orologio interno era preciso… terminava il suo lavoro di pulizie alla solita ora, precisa e spaccata. 
Lavorava su due turni in due posti diversi, ad ora di pranzo puliva la posta centrale mentre nel tardo pomeriggio, il settimo piano di quegli uffici che fortunatamente si svuotavano quando lei arrivava. 
Ci aveva impiegato un po’ a decidere su che lavoro buttarsi… aveva voluto uno che non avesse nulla a che fare con la persona che era prima. Niente calcoli, niente che le impegnasse la mente in alcun modo, niente a che fare col suo sapere, con teorie matematiche e nemmeno che la mettesse a contatto con la gente. Non un lavoro pubblico che la obbligasse a socializzare. Soprattutto non qualcosa di eccessivamente faticoso, visto che non era per niente forte.
Era rimasto poco. 
La donna delle pulizie le era sembrato il posto migliore, non le importava di avere tutte le lauree ed i dottorati possibili e di fare qualcosa di umile, per lei contava essere lontana dalla vita che aveva prima poiché da quella le mancava il principale protagonista e nemmeno sforzandosi poteva fare come niente fosse.
Davanti a certe cose non si può fingere indifferenza, davanti ad altre invece sì. 
Poteva fregarsene di pulire pavimenti e bagni, non poteva fregarsene di lavorare per la polizia senza Marek. 
Faceva quella vita da un anno, quello precedente l’aveva passato nell’apatia più totale, dopo semplicemente si era rassegnata.
Il suo cambiamento non aveva abbracciato solo il suo lavoro. 
Ferma alla fermata della metropolitana, aspettava l’arrivo del mezzo con aria spenta insieme a molte altre persone. Alcune con la medesima espressione, altre con l’argento vivo addosso. 
In un angolo un artista di strada suonava un violino con un cappello ai suoi piedi, alcune persone ci mettevano pochi centesimi dentro mentre altre erano impegnate nel discutere sul nome dei suoi pezzi, tutti più o meno famosi. 
C’era chi sosteneva che fosse Chopin, chi Bach, chi Mozart… artisti talmente diversi fra loro che veniva da chiedersi come potevano confonderli fra loro.
Una ragazza dall’aria sveglia, presa dalla discussione per farsi vedere più intelligente di quello che in realtà non fosse, le chiese cosa secondo lei suonasse quel giovane. 
Reina l’aria intelligente l’aveva sempre mantenuta anche senza fare o dire niente di particolare.
Reina guardò lei e la sua amica, quindi come se l’avessero insultata, provando effettivamente a riconoscere la sonata, sentì come un lontano richiamo. 
La conosceva.
Strinse gli occhi e corrugò la fronte.
Sì, era sicura di averla ascoltata molte volte e forse a casa aveva anche dei dischi di quell’artista.
Ma chi era?
Le sfuggiva il nome e non era solo una questione di memoria corta, cosa che lei non aveva mai avuto. Era una questione ben peggiore.
Se un tempo lo aveva saputo, ora non più.
Come se il suo sapere precedente l’avesse abbandonata del tutto lasciandola nell’ignoranza più assoluta. 
- Non so. - Liquidò frettolosa. Non mentiva, non ne era mai stata capace.
Con turbamento si allontanò dalle due sedendosi su una panchina di pietra consumata, accanto ad un altro ragazzino intento su un libro di matematica a cercare di finire dei compiti prima di arrivare a casa, probabilmente.
Li guardò con indifferenza e prima di rendersene conto stava leggendo l’equazione da scuola superiore. 
Una parte di sé tornò a dirle che un tempo avrebbe saputo subito la risposta, ma oscurando la propria espressione già poco luminosa di suo, distolse lo sguardo infastidito.
Non sapeva.
Non sapeva più niente di ciò che un tempo invece le veniva con una tale facilità da lasciar basiti chiunque.
Marek sopra tutti. 
Anche se avesse avuto quelle risposte, se le avesse ricordate e se il suo cervello le avesse elaborato le informazioni che aveva, pur ottenendole il suo compagno non avrebbe più fatto battute per sminuire la sua intelligenza, non l’avrebbe guardata semi schifato per poi scherzare a proposito del suo genio.
Marek non avrebbe cercato di alleggerire il carico della propria mente che spesso le pesava troppo sulle spalle. 
Allora per lei non aveva più senso sforzarsi e funzionare ancora come un tempo.
Il sapere e il strabiliare tutti era ormai privo di interesse.
Non era comunque vero che amava strabiliare tutti, lei voleva sapere perché le piaceva, perché le veniva naturale, perché ci riusciva. Però c’era solo una persona che amava lasciar di stucco e quella non c’era più.
No, quel mondo per lei aveva perso di interesse, così come l’aveva perso il sapere le risposte a tutte le domande.
Poco più in là sentì un ragazzo dell’accademia musicale dire che il giovane violinista stava suonando il ‘Notturno’ di Chopin, ma anche sapendolo, ora, non aveva sentito né caldo né freddo. Solo un campanellino che confermava che era quello il nome giusto. 
Sì, continuava a sapere le cose, solo che si fermavano nella sua mente fra questa e la parte adibita al decifrare e onestamente non gliene importava un bel niente, ormai, di sbloccare quella parte di sé. Di tornare a sapere tutto. 
Non le interessava proprio. 
Anche se questo significava infrangere la promessa che gli aveva fatto quel giorno terribile che le aveva cambiato totalmente la vita. 
“Mi dispiace, ma non ci riesco a credere nonostante tutto. Non sono come te. Perdonami.”

 

3 . CREDERCI

Era arrivata da poco a casa, si stava preparando per una doccia rilassante nell’indifferenza più totale quando suonarono alla porta. Sbuffando andò ad aprire e nel ritrovarsi davanti il volto familiare di Rick, un suo collega poliziotto, non trattenne una naturale piega delle labbra sintomo di fastidio. 
- Ciao… - Disse a denti stretti sforzandosi. 
- Ciao… abbiamo chiuso un duro caso e prima di andare a casa sono voluto passare a vedere come stavi… - Fece l’uomo più grande amichevole e al tempo stesso sicuro. 
- Come vedi. - Non rispose che stava bene poiché sarebbe stata una bugia e Rick di sicuro l’avrebbe capito, reputandolo inutile glielo lasciò intuire. Sapeva anche che a lui bastava uno sguardo per capire lo stato d’animo altrui, specie il suo.
Ad eccezione di Marek e Jennifer, lui e Andrew erano sempre stati quelli che comunque la capivano meglio. 
Ora nonostante ne fosse cosciente, la cosa le scivolava addosso come niente. 
- Posso? - Chiese senza preoccuparsi di essere sfacciato. Reina non nascose uno sbuffo maleducato e rientrò in casa lasciandolo entrare, Rick non si sconvolse di quel suo atteggiamento astioso ed insofferente, due anni prima non sarebbe stato da lei, ma ormai sì.
Però non avrebbe mollato. Né lui né Andrew che ancora speravano tornasse a lavorare con loro. 
A turno erano rimasti gli ultimi che passavano a trovarla.
Jennifer si era ormai trasferita, Emily sapeva essere più distaccata, specie nelle situazioni difficili. Reina le aveva risposto male una volta, non l’aveva più fatto perché non si era più fatta viva e l’aveva preferito di gran lunga, piuttosto che loro due che continuavano a tormentarla nella speranza che tornasse a lavorare nella loro unità come un tempo.
Ormai era passato troppo, non era possibile.
Era tutto diverso e ciò che l’aveva spinta ad iniziare non la stimolava più, altre motivazioni non ne trovava. Aveva totalmente perso l’interesse verso ogni cosa. Sembrava che ormai per lei contasse solo scandire il tempo che trascorreva. 
Andrew, il capo squadra, l’aveva sempre avuta a cuore e sapeva che questa reazione così esagerata era principalmente per il suo senso di colpa. Marek era morto per causa sua, dopotutto, e cercare di convincerla del contrario sarebbe stata ipocrisia. Lui non lo era mai stato e non avrebbe certo cominciato proprio con Reina che captava quel genere di falsità a mille chilometri di distanza! 
Rick… beh, da quando era entrato nella squadra, sembrava averla presa a cuore, forse per il suo ruolo di profiler all’interno della squadra. Capire gli altri era il suo lavoro più che di chiunque altro. 
Rick si fece strada nel suo appartamento che ormai conosceva bene senza più stupirsi del disordine cronico che c’era. Non era sporco, ma nemmeno splendente. C’era odore di chiuso, ma quello che saltava di più agli occhi era il caos che regnava, tutto buttato alla rinfusa. Un tempo era precisa nei suoi spazi quanto lo era nella sua mente.
- Come è andata la giornata? - Chiese generico cercando un angolo dove accomodarsi, senza trovarlo. 
La ragazza alzò le spalle senza rispondere. 
Un tempo si sarebbe gettata in una descrizione dettagliata della sua giornata condendo il tutto con nozioni tecnico-scientifiche. Ora era già tanto riuscire a sentire la sua voce. 
- Sarai stanca… - Sapeva che quel lavoro non era una passeggiata, ma onestamente non capiva se l’affaticasse realmente o meno, non era chiaro nemmeno a lui. 
Reina alzò ancora le spalle mentre girovagando per casa faceva finta di cercare qualcosa. 
- Ascolta, io vorrei chiedere il tuo parere su una cosa… - Iniziò allora Rick sperando di riuscire quella volta a far breccia in quello che ormai appariva un cuore ghiacciato. Reina si fermò e lo guardò con la solita posizione leggermente ricurva, come se le spalle fossero appesantite dall’ingombro del genio ora arrugginito, ma che comunque non se ne sarebbe mai andato. 
- Io ed Andrew non abbiamo mai smesso di cercare Marek. - Appena disse quel nome Reina si morse a sangue il labbro e incupì gli occhi, la maschera di fastidioso gelido cominciava a sgretolarsi, ma la reazione successiva sarebbe stata peggiore… 
Continuò impietoso sapendo che era necessario e che forse era l’ultima carta che rimaneva. Si erano sempre guardati bene dal parlare con lei di Marek, attenti a non nominarlo nemmeno. Rick ora voleva scommettere, del resto i suoi metodi non erano mai andati troppo per il sottile!
- Pensiamo che potremo esserci vicini, ma vorrei sapere da te cosa ne pensi dei dati che abbiamo raccolto, sono sicuro che tu potresti fare un calcolo preciso in base a… - Ma non ebbe modo di finire poiché prima ancora che l’uomo potesse porgerle la cartellina con dei fogli pieni di dati ed informazioni precise, la mano bianca e magra della giovane la fece volare a terra con un gesto secco e quasi violento.
- Non lo so e comunque è inutile! Lui è morto, anche se troviamo il suo corpo servirà solo a seppellirlo e onestamente non mi interessa. Non è sottoterra che voglio vederlo! - Alterata cominciò a gesticolare per poi andarsene dritta nell’altra stanza lontano da quei documenti sparsi e da quella persona così insistente ed impicciona!
Lo sapeva meglio degli altri che non riusciva più ad usare il proprio dannato cervello come un tempo, che i calcoli più elementari non le venivano, che i ragionamenti più stupidi rimanevano bloccati nella sua mente. 
Lo sapeva, perché torturarla con quel discorso?
Le bruciava, le bruciava da matti, tanto da mandarla in bestia e non sapeva bene perché, dove stava il problema autentico, perché reagiva così e perché ogni volta che cercavano il suo aiuto o addirittura alludevano a Marek, lei si infuriava così.
Non erano da lei quegli scatti d’ira, quell’aggressività, quella maleducazione, quel rifiuto di fare la cosa giusta… nulla di tutto ciò che faceva lo era perché era cambiata. Sé stessa come la propria vita. 
Quel giorno, quel maledettissimo giorno non solo le aveva mutato tutto, l’aveva proprio rovinata!
Rimase coi pugni stretti lungo i fianchi, girata verso il muro della propria camera per un paio di minuti al termine dei quali, superato il momento di ira e di panico, si era calmata e tornata in soggiorno l’aveva trovato vuoto. 
Rick se ne era andato lasciando per terra, dove li aveva buttati, tutti i fogli con i dati raccolti sul caso di Marek. 
Erano riusciti a prendere i colpevoli e gli avevano dato la giusta punizione, ma quello che nessuno riusciva a spiegarsi era come un corpo caduto in un fiume potesse sparire in quel modo, come se invece che sfracellato nelle rapide gelide fosse caduto in una fornace ardente che l’avesse incenerito. 
Era per questo che né Andrew né Rick avevano mai mollato ed avevano continuato a lavorare a tutte le teorie possibili per ritrovarlo. 
Se il suo cadavere non c’era, allora poteva solo essersi salvato in qualche modo, ma da solo, sicuramente ridotto male, non se la stava di certo passando bene. Specie considerando una cosa essenziale.
Pur salvato, non si era fatto vivo con loro.
Due anni di sparizione.
A quel punto le strade da battere erano rimaste poche, però senza l’aiuto prezioso del cervello di Reina non potevano farcela. Fatto tutto ciò che era nelle loro possibilità, non sapevano più come proseguire. 
La ragazza guardò i fogli sparsi, rimase dritta ed impettita con ancora i pugni chiusi, li fissò dall’alto come se fossero spazzatura, poi senza volerlo cominciò a leggere quello che le saltava agli occhi. Righe e numeri qua e là, senza nessuna sequenza logica. 
Cose che avevano un senso per lei, la sua testa conosceva, sapeva cosa farne ma non aveva proprio idea di come elaborarle. 
Si chinò per raccoglierli ed invece di impilarli e buttarli, li sparse meglio nel pavimento per bene in modo da leggere tutto, quindi rimase rannicchiata lì davanti a fissarle più e più volte, perdendo la cognizione del tempo.
Perdendolo per la prima volta veramente.
Senza più contare i rintocchi. 
Senza più sapere quanto era trascorso fra lei e Marek. 
La notte era inoltrata quando alzò gli occhi e vide che l’orologio a pendolo aveva battuto le due. Corrugò la fronte.
Era rimasta così tanto ferma a guardare un qualcosa che le appariva come arabo, ma che sapeva di conoscere?
Per lo meno sapeva che un tempo le aveva conosciute, come se cercasse fra i meandri nella mente un modo per sbloccarsi e comprendere. 
Era vero che nessuno aveva mai osato per due anni provocarla così apertamente e nominare direttamente il nome del suo fidanzato, era anche vero che non erano mai andati a chiederle aiuto esplicito con tanto di dati su cui lavorare. 
Però era oltremodo da considerare che all’epoca aveva provato a pensare a dove potesse essere finito il suo corpo e che la propria mente si era rifiutata di collaborare per il troppo dolore che il cuore portava.
Per superarlo si era allontanata da tutto ciò che riguardava Marek, pensando comunque esclusivamente a lui, contando quel dannato tempo che scorreva implacabile separandoli sempre più.
Una contraddizione, se ne era resa conto; lei non era una contraddizione, non lo era mai stata. Era sempre stata logica e razionale, lineare. Anche quello, in lei, era cambiato.
Di Reina ormai non c’era più niente.
Gli occhi castani cerchiati dalle occhiaie scure scorsero casa alla ricerca di qualcosa di familiare.
Si era allontanata da tutto ciò che era stato un tempo perché le aveva ricordato troppo l’uomo più importante della sua vita e ricordarlo così tanto le aveva fatto un male insopportabile. Per superarlo era scappata da lui a quel modo, ma forse era vero che poteva aiutarlo. 
Era vero che magari valeva la pena crederci… solo perché erano state le sue ultime parole prima di saltare…
Forse glielo doveva, visto che l’aveva promesso.
Per crederci doveva darsi da fare e analizzare quei dati e provare a tirare fuori qualcosa di utile per il suo compagno. 
Per fare questo, però, doveva riattivarsi e a sua volta per riuscirci doveva ritrovare il contatto con la vecchia sé stessa, per sbloccare la sua mente che non chiedeva altro che essere riattivata.
Poteva?
Un contatto con la vecchia sé stessa… guardò i libri impolverati nella libreria, i vecchi dischi di musica classica, opera, blues e jazz ereditati da sua madre. 
Era un altro tipo di contatto quello che le serviva.
Era il contatto con colui dal quale si era allontanata a tutti i costi per non impazzire dal dolore.
Era ora di ritrovare la connessione con Marek. Una vera connessione.
Strinse convulsamente le labbra che apparvero più sottili che mai, impallidì e contrasse la mascella, lo sforzo era immane, ma sapeva cosa doveva fare.
Lo sapeva benissimo. 
Prese un respiro profondo dietro l’altro, come se soffrisse di asma, poi si alzò abbandonando le carte sul pavimento, andò in un posto preciso e buttando all’aria delle coperte e dei cuscini da un mobile, scoprì un piccolo stereo che le aveva regalato Marek anni addietro insieme ad un paio di CD che a lui piacevano tanto, tutte canzoni che poi le aveva spiegato con quel suo metodo coinvolgente e affascinante, riprendendo il testo e attualizzandolo. 
Le bruciavano le giunture, era come rivedere una sua foto, cosa che non aveva mai fatto. 
Come fossero i movimenti di una persona dai muscoli atrofizzati, inserì un CD specifico mettendo la modalità ripetizione su una canzone in particolare. 
Pochi secondi e nella stanza immersa nel silenzio più completo si levò quella di quel giorno, l’ultima canzone di cui avevano parlato insieme, che le aveva fatto ascoltare prima del furgone arrivato a prelevarla. 
Non era il suo genere, non era particolarmente bella per i suoi gusti, troppo rock insomma, ma dopo due anni di silenzio, riascoltare della musica era come tornare ad utilizzare l’udito dopo un lungo periodo di sordità. 
La voce acuta del cantante si levò nell’aria insieme alla musica potente e ritmata, in grado di scuotere chi ascoltava le sue parole. 
Il sangue cominciò a scorrere in fretta, come se bollisse. 
La testa le martellò.
Il fiato sempre più corto.
‘Quel giorno’ tornò implacabile.
Il momento prima in cui erano stati divisi.
Con la potenza di un treno in corsa, l’investì. Non l’aveva più rivissuto, si era rifiutata di pensarci. 
Quella canzone le ricordava l’attimo in cui erano stati separati la prima volta, l’inizio della loro fine. 
E con le parole appassionate di Marek che spiegava il concetto stesso della canzone, con il canto dell’ultima strofa particolarmente toccante e presente, si ripeté la promessa che le aveva fatto fare nel loro momento d’addio. 
Una promessa che aveva accettato e mai mantenuto. 
- Devi promettere che sopravvivrai, che non ti arrenderai qualunque cosa accada. -
Era possibile?
Per due anni aveva pensato di no, ma ora si trattava di credere esattamente il contrario. E non solo di ipotizzarlo, ma di convincersi.
Lentamente, mentre la canzone riprendeva a ripetizione come un disco rotto, il respiro tornava pian piano regolare, il sangue smetteva di ribollirle incendiandole le vene sotto la pelle, il calore scemava, la testa cessava di dolerle. 
Lentamente tutto di sé tornava normale. 
Con un respiro finale si decise e dal mezzo della stanza si rivolse di nuovo alle carte sparse per terra e guardando i numeri e i dati scritti sopra con tanto di mappe e foto, riuscì finalmente a capire.
E a decifrare. 
- Posso farlo. -

 

4 . CAMBIAMENTO

Alzò gli occhi al cielo uscendo di corsa dall’ennesimo ospedale. 
Era giorni che era nuvoloso, del resto l’autunno era la stagione delle piogge. 
Dai marciapiedi e dalle strade bagnate, constatò che doveva aver smesso di piovere da poco, guardò poi l’orologio al polso con aria sbrigativa. Quanto era stata dentro cercando di farsi ascoltare? 
Aveva avuto una forte tentazione di chiamare i suoi vecchi colleghi per farsi aiutare, ma per fortuna non ne aveva avuto bisogno.
Non era l’ultimo rimasto, ma quasi, però aveva tirato un respiro di sollievo nel constatare che doveva avercela fatta. 
Non era una persona sensitiva, entrando in quell’edificio non aveva avuto percezioni strane di alcun tipo se non una forte seccatura per essere stata mandata da una parte all’altra come una trottola, però ora sì.
Ora sì che sentiva, sentiva eccome… quell’accelerazione cardiaca, quella sensazione asmatica, l’ansia che le schiacciava il petto e le torceva lo stomaco.
Avrebbe vomitato se avesse pranzato o cenato, ma aveva lavorato incessantemente per… beh, non aveva idea di quanto tempo ci avesse messo.
Sapeva solo che aveva perso la cognizione di tutto, ma ciò che aveva provato immergendosi nel suo vecchio mondo era stato come tornare a casa dopo due anni di assenza. 
Di minuto in minuto, mentre analizzava e tirava fuori teorie e calcoli, gli ingranaggi si oliavano e riprendevano a muoversi sempre più velocemente, fino a scorrere perfetti e veloci più che mai. 
Non aveva voluto coinvolgere gli altri, non ci aveva pensato minimamente e non per mancanza di fiducia o per orgoglio, ma perché era una cosa che voleva fare da sola, ritrovare Marek. Certo senza il grande lavoro che prima Rick ed Andrew avevano fatto, di sicuro non sarebbe potuta essere così veloce, però c’era anche da dire che era colpa sua se erano passati due anni. Se non si fosse spenta a quel modo avrebbe potuto ritrovarlo prima.
Sebbene inizialmente era andata a cercare un probabile cadavere, di ospedale in ospedale, una zona specifica ben lontana dalla loro, aveva cominciato a credere di poter trovare una persona viva. 
Mille ipotesi si susseguivano di continuo ed ora avrebbe avuto risposte. 
Non essendo più un agente non aveva potuto ricavare molto, ma aver ottenuto un indirizzo era stato già tanto. 
La sensazione di impazzire, come due anni prima, era di nuovo incombente e questa volta non per il dolore, bensì per l’ansia. 
Suonò il campanello mentre una valanga di domande e risposte - solo ipotesi - si alternavano a fiumi nella sua mente velocissima, poi, finalmente, la porta si aprì ed ebbe la consapevolezza che era ora della verità. 
Ed ecco, il tempo si fermò. 
Il viso dai lineamenti un tempo sicuri e decisi era dinnanzi a lui. 
La sua pelle scura non era più liscia come un tempo, si intravedevano cicatrici più o meno profonde, gli occhi neri una volta carichi di certezze come due braci penetranti, ora la fissavano smarriti ed insicuri.
Reina aveva pensato di trovarlo nelle peggiori condizioni, addirittura in coma o deturpato in un modo disonorevole, ma a parte qualche segno di poca impressione ed un’espressione che non era nemmeno l’ombra di ciò che era sempre stato, Marek stava bene ed era vivo. 
Fu lì, nel tempo bloccato, che alla donna parve di essere lei a cadere da quel precipizio sfracellandosi nel fiume, fra rocce e massi, trascinata via in una corrente gelida terribile, portata istantaneamente via lontana. 
Prima ancora che parlasse e si spiegasse, capì da sola. Capì nell’immediato come un pugno allo stomaco. 
- Hai perso la memoria… - Eppure era la soluzione più ovvia e più terribile insieme. 
Talmente logica da far ridere e al tempo stesso crudele da far piangere, ecco perché non aveva mai osato nemmeno pensarlo. 
Perché non recuperare la memoria in due anni equivaleva a non recuperarla più, a perdere Marek lo stesso, a non poterlo avere ancora e forse per sempre. 
- Sì? - Disse allora l’altro che aveva perso un po’ la forma perfetta ed atletica di un tempo. Era sciupato a sua volta, i capelli trascurati erano più lunghi del solito, la barba incolta e l’aria di chi non dormiva mai.
Il tormento nel suo viso, nella sua espressione, nella sua postura ritirata e insicura, nel tono della sua voce.
Quello del suo Marek non aveva nulla, solo il corpo. 
La testa cominciò a girarle constatando il significato reale e tremendo di quella realtà, quindi si aggrappò allo stipite e il non aver mangiato per quegli ultimi giorni di lavoro incessante, il non aver dormito, il non essersi fermato un secondo le gravò tutto in una volta sulle spalle, schiacciandola implacabile. 
- Sono Reina… ti prego, Marek, dimmi che ti ricordi di me… - Il pallore fu spaventoso, ma i suoi occhi cercavano di rimanere aggrappati alla labile speranza che si sbagliasse. 
Poteva sbagliarsi, non era mai successo, ma quella volta pregò che succedesse. 
Così non fu. 
Marek scosse il capo smarrito e preoccupato insieme vedendola stare male in modo evidente. 
- No, mi spiace… io… ho perso la memoria e non ricordo niente… ma tu stai bene? - In quello, oltre alla lacerazione dovuta alle sue parole, un piccolo fuoco tentò di riscaldare la sua pelle gelida. 
Quelli erano i suoi vecchi modi di fare. Eludere le domande su sé stesso e preoccuparsi subito per gli altri. Per lei. 
Aprì la bocca cercando di rispondere, ma non riuscendo più a mettere in ordine i propri pensieri troppo impetuosi e confusi, si ritrovò a scivolare giù come se le ginocchia perdessero consistenza o le avessero tagliato i fili. 
L’ultima sensazione tattile che ebbe, mentre i sensi le si ovattavano mescolandosi confusamente fra loro, furono le sue mani che la prendevano per le braccia cercando di reggerla. 
Una scarica elettrica la percorse ed invece di riprendersi, le diede il colpo di grazia.
Dopo due anni, Marek la stava toccando. 
Non era morto. 
Era vivo.
Stava bene.
Però aveva perso la memoria.
Non si ricordava più di lei.
Un tuono vicino irruppe con fragore all’esterno facendo andar via la luce in un tremolio prolungato dei vetri. 
Col buio circostante, anche Reina vi cadde inevitabilmente. 

Raccolse i propri pensieri quando ricominciò a distinguere il caos cosmico in cui era sprofondata e dando un nome ad ogni immagine che le si sovrapponeva, rivisse ciò che aveva dovuto aver passato Marek.
Dalla caduta, allo sbattere ripetutamente violentemente contro rocce, al venir trascinati dalla gelida corrente, al finire lontano in una sponda di fortuna, da qualche parte sconosciuta di quel bosco troppo fitto. Troppo lontano dalla sua città d’appartenenza. Troppo lontano da tutto. 
Privo di sensi per chissà quanto, poi per miracolo si doveva essere risvegliato, si era forse trascinato in qualche sentiero e lì di sicuro era stato trovato da alcuni escursionisti. 
Portato in un ospedale, curato, salvato, rimasto probabilmente in coma per dei giorni, delle settimane, ripresosi non aveva più recuperato la memoria. Dopo le riabilitazioni aveva cercato di capire chi lui fosse senza successo, sperando di trovare delle risposte aveva cercato di andare avanti alla meglio così, da solo, senza nessuno, senza ricordi, senza nemmeno sé stesso.
Lei l’aveva saputo, quando si era decisa ad andare a cercarlo, che doveva essere successo qualcosa del genere, anche se non aveva osato ipotizzare la perdita di memoria. 
Ma come far fronte, ora, ad una realtà simile?
Però in fondo da che avevano cercato un cadavere, a che avevano trovato una persona viva… potevano ritenersi contenti, dopotutto. 
Era ancora fra i vivi.
Vivi… era vero… Marek era ancora con lei… non era morto come per due anni aveva creduto. 
Era vivo… 
Quando riaprì gli occhi castani di scatto, erano pieni di lacrime che scendevano copiose e la luce fioca delle candele per il blackout non la fermarono dal trovare subito Marek e aggrapparsi istintivamente al suo collo, stringendolo forte come fosse la sua ancora di salvezza.
Non aveva idea di cosa stesse passando lui, se l’aver rivisto un viso conosciuto, il viso della persona amata, se l’averla toccata, poteva aver giovato o peggiorato, ma al momento non poteva far altro che essere egoista e curare sé stessa.
Solo un attimo.
Uno piccolo piccolo.
Al suo termine si sarebbe ripresa, avrebbe tirato su le maniche e con la sicurezza che a Marek mancava e che lei non aveva mai avuto, l’avrebbe aiutato restituendogli lentamente tutto ciò che aveva perso.
Lentamente, ma con decisione, con risolutezza, testardaggine e senza mai mollare.
In un modo o nell’altra se lo sarebbe ripreso ed in vita sua, improvvisamente, poteva dire di non essere mai stata tanto sicura di qualcosa come in quell’istante.
Stringerlo con forza e disperazione, piangendo come una bambina, sentendo di nuovo il suo calore ed il suo corpo, dopo giorni passati a sognarlo e basta, la ricaricò come non fosse mai stata male. 
Titubanti, sentì le mani appoggiarsi sulla sua schiena magra, tremavano, al contrario suo che finalmente era ferma e stava bene, seppure avesse pensato di impazzire solo un istante prima. 
Non ricordava ancora. 
Prese un profondo respiro, si fece coraggio e si separò da lui asciugandosi le lacrime con fare infantile, tirò su col naso e lo guardò scacciando tutto il suo dolore e la sua insicurezza. 
Adesso era ora di occuparsi della persona che amava, l’avrebbe curato lei. 
Marek la guardò smarrito, ma con pazienza e preoccupazione.
- Tutto bene? - Chiese incerto sperando che qualunque cosa avesse non fosse grave. 
Era consapevole che non ricordava ancora niente e che per lui era una nebbia terribile nella quale sapeva che qualcosa di familiare era vicino, ma non era certo facile far funzionare tutto come niente. 
- Adesso andrà bene. - Disse con sicurezza, sorridendo fra le lacrime che le illuminavano gli occhi lucidi. 
Lo vide colpirsi di quello sguardo risoluto, ma gentile, di chi aveva trovato ciò che da tempo aveva disperatamente cercato e capì che essendo di nuovo insieme, le cose non sarebbero potute andare che bene.
Questo oltre a sperarlo e crederlo con tutta sé stessa, era anche una certezza.
- Io… mi dispiace, ma non ricordo niente, come ti dicevo… immagino che ci conoscevamo… - Cominciò allora Marek impaziente di capire chi fosse, sapendo che finalmente anche per lui erano arrivate le tanto attese risposte. 
- Ora è così, ma non devi smettere di credere che presto tornerai come prima. Vedrai. - La sicurezza con cui parlava e la luminosità del suo sguardo parevano rubati dall’uomo che aveva davanti, che ora la fissava interrogativo e smarrito. Allungò di nuovo la mano fino a toccarlo, quindi stringendogli la spalla, disse calma:
- Io sono Reina Simons, tu sei Marek Drew. Adesso ci penserò io a te. - 
E così sarebbe stato, con una canzone da ascoltare ed un orologio a pendolo da caricare per poter ricominciare a contare i rintocchi da capo e vedere quanto tempo, ora, avrebbero passato insieme.
Fuori aveva smesso di piovere e tuonare e sebbene l’autunno non permettesse grossi slanci di bel tempo, il sole riuscì timidamente a farsi strada da sotto le nuvole grigie che ora si scostavano. 
Anche il loro sole personale, rimasto nascosto per due lunghi anni, stava lentamente tornando a farsi vedere mentre una musica energetica accompagnata da parole che dicevano di mantenere la fede nella vita, si insinuava nelle loro menti.