CAPITOLO XII:
LA FINE

Era affacciato al cornicione, la prima volta che guardò giù dall'alto.
 Aveva cinque anni ed era salito con tanta fatica fin su in cima al palazzo. 
 Era sveglio, più sveglio di quel che pensassero gli altri che nel vederlo pensavano fosse solo un iperattivo come tanti. Però lui sapeva che il punto più alto che avesse mai visto era la cima del palazzo, dove si metteva la biancheria. Da là avrebbe visto tutto il mondo ed avrebbe capito quando grande o piccolo fosse.
Lui voleva saperlo, prima di cominciare ad esplorarlo.
Che confini aveva, il mondo?
Quanto doveva viaggiare per superarli? Gli sarebbe bastata la bici e le merendine di una settimana intera o doveva mettere da parte di più?
Voleva solo capire, niente di più.
 Quindi in ascensore aveva schiacciato il pulsante più alto dopo essere salito su uno sgabello che si era portato dietro.
 Sempre con lo sgabello in mano aveva fatto le scale faticosamente, poi aveva aperto facilmente la porta e raggiunta la balaustra era salito sullo sgabello, si era appeso alla ringhiera e si era sporto per guardare giù.
Non voleva fare niente di particolare, solo guardare i confini.
Ciò che sentì fu un enorme senso di vuoto allo stomaco, per lui si trattava solo di qualcuno che gli soffiava dentro. Era rimasto sena fiato e le forze gli erano andate via.
Era così alto.
E lui era così piccolo ed insignificante.
Ricordava d'aver pensato esattamente così.
'Dio, mi ci perderò! Come faccio ad esplorarlo tutto?'
E quella paura di perdersi gli era nata paralizzandolo, aveva germogliato e non l'aveva più lasciato. Era cresciuta come un cancro fino a che, oltre al suo cuore, si era attorcigliata intorno al suo cervello e da lì non se ne era andata.
La paura di perdersi nelle cose, in tutto, ovunque, sempre.
Il peggio era nelle persone.
Quella volta era rimasto a fissare giù per tantissimo tempo, poi erano venuti a prenderlo preoccupati e l'avevano stretto gridandogli di tutto, impazziti dalla preoccupazione.
Gli avevano detto di non farlo più ma non gli avevano chiesto perchè era venuto lì. Quando aveva domandato perchè non dovesse rifarlo gli avevano solo detto che non doveva e che era pericoloso.
Sì, ma pericoloso perchè?
Perchè sì.
 Non ne aveva parlato con nessuno, non gli avevano chiesto, non aveva potuto spiegarsi e raccontare i suoi dubbi e le sue nuove angosce. Nessuno si era veramente preoccupato anche se tutti erano impazziti di preoccupazione, quindi alla fine si era tenuto tutto dentro cercando di capire da solo se ci fosse veramente una fine del mondo e se potesse vederlo tutto. Se, insomma, ci sarebbe riuscito senza perdersi.
Dopo di quello gli era venuta la paura di uscire di casa.
 Mettere un piede fuori dalla sua porta gli significavano urli strazianti fino a che, pensando che fosse rimasto sconvolto dall'altezza e dalla paura di cadere, avevano deciso di trasferirsi in una casa ad un piano, sicura e solo loro.
Trovarsi in un posto nuovo gli aveva riacceso la voglia d'esplorare. Solo quella casa.
Poi, visto che c'era, aveva esplorato il giardino. Era grande.
Il recinto era delimitato da siepi, pensava non esistesse altro al di là di quello e che prima era stato un brutto sogno. Pensò d'aver sempre abitato lì.
Si era confuso.
Quando lo portarono a scuola lo fecero con l'inganno.
'Andiamo a giocare fuori?' e per lui il fuori era sempre stato solo il giardino.
Aveva detto di sì e, caricatolo sull'auto allacciato al seggiolino, non gli avevano detto perchè giocassero in macchina e non sul prato.
Erano solo usciti dal grande cancello che ora era aperto.
L'urlo che aveva lanciato nel vedere un mondo nuovo, quel mondo che aveva sognato in quell'incubo orrendo, era stato assordante e straziante. Aveva cominciato a battere i piedi e a picchiarsi il viso con le mani strappandosi i capelli.
Un'autentica crisi di nervi.
 Preoccupati per la giovane età oltre che per la crisi in sé, l'avevano portato in ospedale e lì gli avevano dato il primo calmante.
 Dopo, nel corso degli anni, la cosa si sarebbe ripetuta a cicli con fattori scatenanti sempre diversi.
 La psicologa infantile era riuscita a fare un gran lavoro su di lui e a fargli capire che non ci si perdeva nel cercare i confini e che se voleva trovarli bastava esplorare. E che non importava se gli sembrava di non trovarli, perchè non si perdeva veramente. C'era sempre la sua mamma, con lui, che non lo lasciava solo.
La paura di uscire gli era andata via, gli era venuta in compenso quella di andare in giro senza la mamma.
Quando la madre era venuta a mancare per un incidente inatteso, per lui si era aperto il vero ed autentico abisso.
Nessuno degli amici del presente aveva mai saputo di questi fatti, specie dell'esaurimento alla morte della madre.
 Ma il ragazzino era rimasto ricoverato in ospedale per molti giorni, con dei calmanti che lo facevano dormire perchè altrimenti si feriva.
 La psicologa, questa volta, gli aveva fatto capire che l'amore non era finito con la mamma e che c'erano altre persone in grado di proteggerlo ed impedirgli di perdersi, che ce ne sarebbe sempre stato qualcuno, anche quando uno lo lasciava ne veniva un altro. Che non si sarebbe veramente perso. Doveva solo trovare le persone in grado di guidarlo e di accompagnarlo alla ricerca dei confini e nelle sue esplorazioni.
 Dopo essersi rimesso si era attaccato al nonno perchè suo padre non era molto gentile, lo mandava sempre via seccato e spesso lo picchiava per dargli qualche lezione o punirlo per le mille stupidaggini che faceva. Si era attaccato al nonno in un modo incredibile ed era stato devastante perderlo. Un altro crollo. Altri calmanti. E poi l'incontro con la musica, la sua vera salvezza, l'unica che, ne era proprio certo, non aveva confini.
Bè, l'unica cosa oltre alle stelle.
 Tutte le volte che si sentiva assalito dall'angoscia per qualche motivo, magari mentre pensava a quel palazzo o alla mamma o a suo nonno, guardava le stelle o ascoltava la musica. Non c'erano confini ma non l'angosciavano perchè significava che non serviva esplorarla alla ricerca della fine. La fine delle stelle, così come della musica, non esisteva. Poteva anche stare fermo dov'era e farsi fare compagnia da quelle cose.
Non era un vero perdersi, per lui, perchè non andava da nessuna parte.
Non si rendeva conto che invece erano proprio i momenti in cui si perdeva più di tutti e che rischiava.
 Però tenerlo lontano dalla musica, giorno dopo giorno, diventava sempre più impossibile perchè era davvero bravo a cantare e a suonare, la capiva, la sentiva dentro. Era espressione intima di sé. Ascoltandolo suonare si aveva una chiara visione del caos che aveva dentro e l'incapacità di ripetere ciò che suonava era indice della totale incostanza ed imprevedibilità.
La musica divenne il suo punto fisso, le stelle la sua dimensione.
Tobin il suo nuovo fratello. Lui e la musica erano arrivati quasi insieme. Era una sorta di messaggero, per lui.
Gli altri erano cambiati più o meno spesso, ma lui era rimasto fisso ed era diventato il suo punto di riferimento fino a che non era arrivato Jerry.
Jerry aveva scatenato in lui qualcosa. Qualcosa di strano.
Qualcosa che nessuno sarebbe mai riuscito a capire di preciso.
Gli si attaccò distinguendo chiaramente fra Tobin, suo fratello adottivo, e Jerry, il suo amico.
Eppure fra un fratello ed un amico non sarebbero dovuto esserci paragoni... doveva essere più essenziale il fratello. Invece no. Lo era l'amico.
Jerry aveva cominciato ad avere un potere incredibile su di lui, lo rilassava solo essendoci... però c'era il problema che non capiva mai davvero cosa pensava.
Quando un giorno litigarono e rimasero senza parlare per un po', gli attacchi d'ansia tornarono.
Il crollo arrivò in piena carriera col gruppo, andava a gonfie vele ma era un po' che con Jerry non si parlavano.
Non ricordava perchè avevano litigato però Jerry non intendeva andargli incontro come faceva sempre, troppo stufo di cedere sempre e accontentarlo. Irremovibile per una volta. L'unica.
 Non l'avrebbe mai rifatto.
Il problema era che nessuno sapeva dei suoi precedenti crolli nervosi, se l'avessero saputo si sarebbero comportati diversamente e non voleva che fosse così. Si era anche laureato in psicologia per capire cosa fosse meglio per sé stesso, per curarsi da solo senza il bisogno di una psicologa. Però alla fine non gli era stato molto utile. Si era analizzato e capito ma non aveva trovato una cura se non quella di tacere il suo passato ai suoi amici.
Degenerò e nessuno poté farci niente, nessuno avrebbe immaginato...
arrivò a ferirsi da solo fino a svenire e da lì capirono che qualcosa non andava. Qualcosa di dannatamente serio. Quando il padre aveva detto 'di nuovo?! Pensavo fosse guarito!' a Jerry e Tobin vennero i peli dritti.
 Solo allora seppero tutto e sconvolti decisero di ricoverare Jacoby, perchè continuava a ferirsi e dire cose senza senso sull'odio e sulla cattiveria e sulla doppia natura umana. Decisero di sciogliere il gruppo. Non che spettasse a loro decidere visto che l'aveva fondato Jacoby... ma era evidente che non poteva decidere da solo.
Venne messo tutto in ghiaccio, nessuno fece dichiarazioni ufficiali, si dannarono per non far trapelare nemmeno una mezza notizia a riguardo e solo delle voci si sparsero fra pochi riguardo questo suo crollo. Qualcuno lo definì schizofrenia, altri nevrosi... altri solo stress... però non uscirono vere notizie e tutto scivolò via nel dimenticatoio.
Fino a che, Jacoby, affrontò di nuovo la psicologa per chiedergli di smetterla di drogarlo che non ne poteva più di non vivere. Era un fantasma, Dio non ne poteva più.
Piuttosto si uccideva.
La psicologa non gli aveva tolto le medicine, lui aveva smesso di prenderle da solo ed aveva cercato di uccidersi molte volte. Tutte volte scongiurate da Tobin e Jerry.
Era stato quest'ultimo a fare il miracolo.
Salvatolo in extremis l'ennesima volta, gli aveva chiesto cosa voleva fare.
Jacoby, preso in contropiede, aveva risposto spontaneo 'andare in Australia!' Jerry aveva chiesto perchè. Diavolo, non c'entrava niente con quel casino. Lui aveva detto 'per vedere se è lì la fine del mondo!'
Jerry aveva avuto un'intuizione. Una domanda più che altro.
Si era chiesto cosa avrebbe fatto nel caso in cui non avrebbe trovato nessuna fine, in Australia.
Allora l'aveva portato convinto che nel non trovare ciò che cercava avrebbe smesso di cercare e si sarebbe messo in pace.
Insomma, impazziva per capire dov'era la fine del mondo?
In Australia non aveva trovato niente e Jerry gli aveva chiesto, davanti al mare, cosa pensasse. Jacoby aveva risposto che non lo sapeva. Allora gli aveva chiesto cosa voleva fare.
'Cercherò da un'altra parte.'
'Perchè? È così importante trovare la fine del mondo?'
Jacoby aveva risposto piangendo.
'E' tutto quello che conta per me.'
A Jerry gli si era stretto il cuore e con la voglia di piangere a sua volta l'aveva abbracciato. Jacoby si era calmato subito ed aveva pensato che semplicemente non potesse stare solo ma che aveva solo bisogno di essere assecondato ed accompagnato nelle sue follie. Ciò che poi avevano, più o meno, fatto sua madre e suo nonno.
 Non aveva capito, nessuno aveva capito, perchè si era scatenato con il loro litigio. Non poteva sapere ciò che Jacoby aveva istintivamente visto in lui, quello squarcio di futuro con lui. La proiezione dei suoi sentimenti che sarebbero cresciuti sempre più. E quindi quel litigio aveva rappresentato la paura di una fine. La paura di trovare una fine a qualcosa, finalmente. Dopo che in vita sua non ne aveva mai trovata una. Non aveva saputo cosa fare. Più che altro era la paura di non poter più parlare con lui che tanto gli piaceva. Quello.
Per lui la fine rappresentava tutto. Tanto bello quanto brutto.
In realtà non sapeva bene perchè dovesse trovarlo, però quando l'avrebbe trovato avrebbe saputo, si sarebbe ricordato, avrebbe capito.
Però era tutto ciò che faceva da una vita. Non poteva smettere così. Che senso aveva smettere senza un motivo?
Anche se non si ricordava il motivo per continuare, non avere un motivo per smettere lo spingeva a proseguire.
La prospettiva di trovare la fine del rapporto con Jerry era agghiacciante ed inaccettabile al punto che aveva dovuto spostare la propria attenzione su altro e dimenticarsi di quella tragica fine.
Poi Jerry, credendo di far bene, gli disse.
 'Se cercare i confini delle cose ti fa star bene, ti accompagnerò. Ma tu non ucciderti mai, ti prego.' Questo compromesso gli era parso più che accettabile e Jacoby non aveva più tentato il suicidio, era lentamente uscito dal crollo, non aveva più preso dei veri e propri medicinali, solo qualche piccolo rilassante ogni tanto, quando proprio sentiva la frenesia di infrangersi nell'infinito per diventarne parte. Sapeva che Jerry non voleva, glielo aveva promesso.
Il resto della sua vita l'aveva passato a fare qualunque cosa gli passasse per la testa senza frenarsi e sempre accompagnato da Jerry che l'assecondava e vegliava senza fargli prediche o cercare di contrastarlo.
Era stato buono, per i suoi canoni, aveva ripreso con la musica, a perdersi in essa e a non voler più cercare la fine solo quando ne era parte. O quando guardava le stelle.
Lentamente era andato bene.
A patto che Jerry ci fosse, le cose andavano bene in qualche modo. Se l'accompagnava era tutto OK.
L'equilibrio si era perso drammaticamente quando Jacoby aveva capito chi e cosa voleva essere ed ottenere.
Essere come Chester e Mike, avere ciò che avevano loro. Quel rapporto.
Jacoby si confuse di nuovo convinto che volesse loro, eppure sapeva che voleva di più Jerry, non era così.
Quando si era messo con lui era stato fantastico, strano e fantastico.
Alti e bassi, sbalzi d'umore. Niente di veramente ingestibile.
Però quando aveva cercato di costruirsi il proprio angolo, quando aveva cercato di raggiungere con Jerry quello che sapeva ora voleva, aveva fatto un autentico disastro.
Nessuno l'aveva capito ed alla fine aveva perso tutto, tutto.
Alla fine era tutto finito.
Alla fine Jerry l'aveva lasciato.
Jerry non era più con lui ad esplorare le cose con lui e a controllare che non si facesse male. Jerry non era più innamorato di lui.
Jerry non riusciva a stargli vicino. Ad amarlo, a stare insieme.
Non poteva, non poteva più.
E lui senza Jerry non aveva più la promessa di non uccidersi da mantenere.
Perchè era fottutamente stufo ed essere infinito era bello, non dover cercare e cercare e cercare.
E non ricordava perchè cazzo dovesse cercare la fine, ma la cercava. Lo faceva da sempre, era sicuramente vitale.
E non ricordava però ora era stanco.
Fottutamente stanco di cercare.
Voleva solo abbandonarsi in quell'infinito. E visto che la musica sembrava non aiutarlo come sperava, voleva diventare una stella.
Era ora di smettere con tutta quella follia.
Perchè per essere normale aveva bisogno o di Jerry o delle medicine -ed era una vera merda vivere con quella robaccia- o con qualcun'altro sempre accanto. Qualcuno a cui rovinare la vita.
Sposare sua moglie Kelly gli era sembrata una bella idea... aveva visto Jerry stanco quella volta. Però poi Kelly non era bastata ed aveva comunque avuto bisogno di Jerry.
Ma non voleva più rovinare nessuno e siccome non poteva vivere da solo, era ora di diventare infinito e smettere di cercare.
Perchè per lui smettere di cercare equivaleva a questo.
Diventare infinito.
Morire.
Smettere.
Vuoto e neutro, fortemente convinto che fosse l'unica cosa rimasta per non consegnarsi nelle mani della vera follia una volta per tutte, convinto che non si potesse scappare da essa per sempre, decise di fregarla una volta per tutte.
In quel modo non l'avrebbe preso mai, quella puttana bastarda.
Nel pieno della notte, dopo aver rivisto tutta la sua vita e capito ogni tassello, si alzò e uscito dall'appartamento, invece di scendere premette il tasto dell'ascensore. Il tasto che saliva al tetto.
Quella volta fu più facile.
 Fu veloce a salire le scale ed aprire la porta che continuava a stare aperta. Perchè quelle porte, le porte dell'inizio e della fine, erano sempre aperte.
Arrivato alla ringhiera si appoggiò e si affacciò, dopo di ché si sedette sopra.
Non soffiava il vento quella notte.
Era un miracolo, a Los Angeles, in testa ad un grattacielo, il vento soffiava sempre.
Rimase lì e guardò giù.
Era iniziata così, si disse.
Ora il mondo che vedeva dall'alto gli appariva meno grande ed infinito di quella volta. Però era lo stesso irraggiungibile. Lo stesso non vedeva la fine ed era stufo di cercarla.
La fine se la sarebbe costruita da solo. E sarebbe stata la fine della propria follia.
Quella troia non l'avrebbe mai avuto davvero.
Mai.